A sei anni di distanza dal loro notevole debutto, “Hold This Ghost”, i Musée Mécanique sembrano con il nuovo, e ben più ambizioso, ”From Shores Of Sleep”, voler ulteriormente estendere le già ampie maglie strumentali della propria intrigante proposta sonora. La “creatura” partorita dalle menti dei due songwriters Micah Rabwin e Sean Ogilvie decide infatti di “imbarcarsi” in un immaginifico viaggio per mare, che dalle “sponde del sonno” li porterà a navigare tra l'immensità spumeggiante delle inesplorate acque marine. Ed è proprio l'acqua, con il suo ammaliante sciabordare, ad essere immagine centrale intorno alla quale si sviluppa l'opera in esame. Un continuum musico-narrativo strumentalmente complesso ed articolato, con partiture a tratti di stampo orchestrale, quello approntato dai nostri, ricordante le lunghe suite di progressiva memoria. Barocchismi che si fondono tuttavia con l'arcana purezza melodica del folk, resa in questo frangente ancor più evocativa da enfatiche armonizzazioni vocali, dando vita ad un personale impasto sonoro figlio tanto della ciclicità delle partiture schumanniane che degli echi neo folk dell'odierna Portland, città dalla quale i nostri provengono. Si viene in tal modo lambiti dalle ondulazioni melodiche di brani quali The Open Sea, il cui scheletro armonico si poggia sull'esile, insistito picking di una chitarra acustica, attorniato da un caleidoscopico ventaglio dei più differenti spunti strumentali, tra un soffiare mariachi memore della lezione dei Calexico e le melodie sospese delle Ridge Mountains delle “Volpi di Velluto”; o nel marziale svolgersi di una Cast In The Brine, che pare anch'essa provenire dal sommesso songwriting pecknoldiano.
Vena autoriale, quella del duo Rabwin-Ogilvie, che non manca di mostrarsi in tutta la sua maturità espressiva, in magistrali episodi quali una Castle Walls, che non avrebbe sfigurato, con i suoi incroci vocali rimandanti a Crosby, Stills e Nash, ed una dilatata aura armonica in bilico tra musica classica e liquida psichedelia floyidiana, nei dischi a nome Jonathan Wilson; o la cinematica poesia di una paradisiaca Along The Shore, a parere di chi scrive il vertice compositivo dell'intero lavoro. Un album che si chiude sulle quiete note di The Shaker's Cask, magnifica nel suo riuscire ad unire il melanconico afflato cameristico di una piccola sezione di legni ed ottoni, con l'arpeggiare gentile delle corde acustiche e il chiesastico bordone di un organo a canne. L'onirico navigare del quintetto (oltre ai già citati Rabwin e Ogilvie fanno parte della formazione “titolare” anche il batterista Matthew Berger, il “one-man brass section” John Whaley e il polistrumentista Brian Perez, ai quali va a sommarsi una nutrita schiera di ospiti) ha saputo riportare nella natia Portland autentiche, piccole gemme dalla rilucente purezza, scovate in quella che ci auguriamo possa essere solo la prima di molte, future, esplorazioni oceaniche.
Articolo del
24/03/2015 -
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