Che cosa c’entra la chitarra battente e la tammorra muta con Hasta Siempre, comandante Che Guevara, la canzone composta da un musicista cubano e cantata da una generazione di italiani negli anni Settanta? C’entra eccome nel nuovo CD di Nando Citarella e i suoi Tamburi del Vesuvio.
Il disco si chiama semplicemente Museca ed è il frutto di un gruppo di musicisti studiosi delle tradizioni e ostinati nel seguire un suono originale su testi che sono invocazioni, canti oppure leggende. E’ una fusion partenopea quella di Nando Citarella, cantante lirico e attore che si è formato con Eduardo De Filippo, Dario Fo, Ugo Gregoretti e Roberto De Simone; un disco di canzoni nuove che ricalcano le armonie e i contenuti dei canti popolari con l’uso di strumenti tipici come la tammorra, il tamburello e la chitarra battente ma con ampio ricorso alle famiglie classiche dei fiati, (tromba, trombone, flauto, sax), e delle corde (chitarre, basso, violino, contrabbasso).
Dicevamo di Hasta siempre: Nando Citarella la canta in duetto con Gabriella Aiello e il brano, Suite Cirò, si rifà a una leggenda tramandata in un paesino della Calabria, Cirò Marina. Siamo negli anni Cinquanta e un pescatore, zì Mimmo, si imbarca per cercare fortuna in America. Dopo molte peripezie, zì Mimmo finisce in Bolivia e lì incontra Che Guevara diventandone un seguace. Vero o falso? In Calabria di zì Mimmo non seppero più nulla e si sparse la voce che avesse seguito Che Guevara a Cuba. Non c’è alcun riscontro o documento che attesti la veridicità del racconto ma la tradizione orale si consolidò diventando leggenda e Citarella l’ha inserita all’interno di una ballata che ricorda l’atmosfera malinconica di Santa Lucia lontana, tracciando un quadro dell’emigrazione dalle regioni meridionali, quando gli albanesi eravamo noi.
Un violino e il basso elettrico con la tammorra muta ci parlano della “spartenza”, un vocabolo di origine siciliana che indica un distacco molto doloroso. Citarella è il fondatore dei Tamburi del Vesuvio ed è una sorte di sacerdote della tammurriata, una delle forme più antiche di danza legata al ritmo e al canto. La tammurriata accompagna momenti di gioia ma anche di dolore e di protesta: del resto in tutte le manifestazioni chi deve manifestare il proprio disagio lo fa quasi sempre percuotendo un tamburo a un ritmo assordante.
Basti ricordare la tammurriata dell’Alfasud che ci proiettava nel mondo della cassa integrazione e dei disoccupati. Museca rappresenta la Napoli di Eduardo, dei personaggi paradossali, delle maschere, della fatica di vivere. Il CD di Citarella si apre con “Rumba scugnizza” dove le voci degli ambulanti e della strada sono incastonati nella rumba che, a metà degli anni Quaranta del secolo scorso, risuonava nei quartieri spagnoli. Predomina la figura dello scugnizzo, descritto da Raffaele Viviani come uno dei combattenti che liberarono Napoli dai nazifascisti. È il trionfo del suono: il battito del tamburo trova rispondenza nelle pelli e nei legni di conga, tumba, guiro a sostegno dei fiati, (trombone, tromba, flauto, sax tenore).
Ma è l’impasto di voci che colpisce e quel canto si deve ballare. Segue “Un futuro a Sud” di Mario Salvi che ripropone il dramma del lavoro nel Mezzogiorno; dopo un accenno di un brano tradizionale, “So stato a lavorà”, il sax dialoga con una ritmica dal sapore antico e la canzone si conclude in modo sorprendente con un travolgente rap. “La vita è museca”, canta Nando Citarella, è acqua, vento, è una nascita, è il respiro della gente. I tamburi del Vesuvio ci fanno immergere nella città che più di tutte le altre ha prodotto musica ma ci fanno intravedere anche la Napoli dei ricordi, degli antichi fasti borbonici e quella sommersa dai problemi di oggi.
Per risalire alle origini della canzone partenopea, ecco la Suite Garganica di cui si ricorda una meravigliosa versione della Nuova Compagnia di canto popolare. La platea di esecutori è davvero imponente e merita di essere segnalato il ricorso alla Lira calabrese suonata da Mauro Bassano. È una danza tipica del Gargano che, sotto la guida di Citarella, diventa un paradigma di world music. Il disco, prodotto da Alfamusic-Compagnia “La Paranza”, ci offre un’altra faccia della Napoli che ci ha lasciato in eredità l’immenso patrimonio di canti popolari accanto ai grandi compositori di musica classica, la Piedigrotta dell’Ottocento e l’etnorock degli anni Settanta.
Un’altra suite si chiama “La ballerina” ed è composta da “O cunto e Masaniello”, un pezzo di Roberto De Simone, artefice della Nuova compagnia di canto popolare, unito a “O Caterì” di Citarella, cantata da Gabriella Aiello con un grande tensione epico-lirica. Nell’impasto perfetto delle voci, tra colpi di grancassa e timpano, si avverte col flauto traverso l’allegria del ballo. E la gioia per la ribellione di Masaniello contro il potere. Le commistioni musicali sono il filo rosso che unisce tutte le canzoni dell’album e un esempio è davvero tangibile nella “Kopanitza Molisana” che, trattando di lavori della pastorizia svolti da macedoni, montenegrini e albanesi non poteva non mescolare le forme musicali.
Poi il violino di Carlo Cossu sospinge e sostiene il ritmo di una tammorra quasi in sottofondo nel pezzo “Alla Giuglianese”, cantata, ma sarebbe meglio dire ricamata, dalla Aiello. Non manca una puntata tra i tamburi del Brasile con “Os Tambores” che s’ispira a uno spettacolo di Milton Nascimento su cui si innesta un’orchestra con ritmi e timbri complessi. E qui la batteria di Giovanni Lo Cascio sostiene il meticciato brasiliano-napoletano su cui si cimenta Citarella. In “Piedigrotta o spasso” compare anche il mitico Putipù, strumento della tradizione, ma è l’ensemble vocale a farla da padrone in questa marcia di popolo che si dirige verso la Cripta Neapolitana, una grotta carica di misteri e di speranza; è gioia autentica quando la tarantella si sposa col blues.
Come se ci trovassimo in un teatro il disco si chiude con tutti i musicisti, e sono più di trenta i partecipanti al disco, che si presentano facendo precedere il proprio nome dalla frase: “La vita è musica e io sono” … Poi, cala il sipario e, con un po’ di retorica, ci ritorna in mente il verso di Munastiero ‘e Santa Chiara: “Penzo a Napule comm’era, penzo a Napule comm’è”.
Articolo del
11/11/2020 -
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