Il teatro abbraccia molte aree diverse e in una di queste c’è anche la canzone. Ma quali differenze ci sono tra il teatro musicale e il teatro canzone e quali elementi ci potrà riservare in futuro questo genere di spettacolo? Il tema è al centro di un saggio breve ma intenso, scritto da Eugenio Ripepi, attore, regista, cantautore, direttore artistico di manifestazioni teatrali di portata nazionale.
L’autore segna una linea di demarcazione precisa: nel teatro canzone c’è un prima e un dopo Giorgio Gaber, il quale dalle esibizioni degli anni Sessanta al Santa Tecla di Milano, alle spalle del duomo, arriva sul palcoscenico come cantante-attore, capace di intrattenere il pubblico da solo per un paio d’ore alternando monologhi e canzoni. Ma anche questo non basta, secondo Ripepi perché si possa parlare di teatro-canzone: non è sufficiente alternare parole e canzoni, occorre un progetto unico, originale, inedito e un impegno civile.
Certo, se si va indietro nel tempo possiamo dire che c’è poco da inventare: il legame con il teatro greco è dimostrabile facilmente risalendo nel tempo agli spettacoli festivi a Epidauro, all’unità tra poesia e musica, ai cori ditirambici in onore del dio Dioniso, improvvisati e rapsodici. Ma questo è un altro discorso. Ripepi nel suo vademecum indispensabile per chiunque si avvicini al teatro canzone, giustamente indica tra gli antenati il caffè-concerto, la rivista, il cabaret, il Modugno che a Sanremo allarga le braccia e con “Volare” indica agli italiani l’imminente arrivo del boom economico.
E ancora i mitici Nanni Svampa e Dario Fo che fu il vero maestro di Gaber e Jannacci. Ma tutto cambia nel 1970 quando nella televisione ancora in bianco e nero compare il volto di Gaber sdoppiato: “Io mi chiamo G, anche io mi chiamo G” … È solo un abbozzo di teatro canzone, almeno per l’Italia perché in Francia Brel, Montand, Trenet tenevano veri e propri recital.
“Gaber sta al teatro come De André sta alla musica”, scrive Eugenio Ripepi, “due borghesi antiborghesi”. E si susseguono le opere teatrali di Gaber come “Polli d’allevamento”, “Dialogo tra un impegnato e un no so”, “Far finta di essere sani”, tutti scritti a quattro mani da Gaber e Sandro Luporini con riferimenti precisi sia all’attualità sia alla letteratura.
Poi a metà anni Ottanta arriva una cantata anarchica, “Io se fossi Dio”, un’invettiva degna di un nuovo Savonarola, così forte che la casa discografica, la Carosello Records non volle pubblicare e fu stampata da un’etichetta minore. Tra satira di costume e coscienza critica, Gaber condanna in toto il sistema politico e prende atto della sconfitta di un’intera generazione. Eugenio Ripepi dedica un capitolo alla canzone teatrale che ha il capostipite in Domenico Modugno con il quale i cantautori hanno un debito di riconoscenza.
Vengono ricordati Piero Ciampi che recitava sulla musica con l’inconfondibile cadenza livornese come in “Te lo faccio vedere chi sono io” e la geniale “Adius”: “In Ciampi a volte è il teatro che vince sulla musica”, scrive Ripepi. Chi concepiva i suoi concept album in modo teatrale era sicuramente Fabrizio De André, basti pensare al “Recitativo” che chiude “Tutti morimmo a stento” o ai versetti della Bibbia che fanno parte della “Buona Novella”. Per non citare l’apertura del disco con la voce di due donne dal forte accento sardo che recitano la poesia Nuvole. Il dopo Gaber vede pochi nomi certi e tra questi c’è Gian Piero Alloisio che tra l’altro scrisse con l’autore del Signor G alcuni brani tra cui la strabiliante “La strana famiglia”.
Tra gli altri esempi di teatro canzone ci sono quelli di Max Manfredi, una penna straordinaria per la poesia in musica, autore della Leggenda del santo cantautore e di altre pièce teatrali. Ma Ripepi cita anche la metafisica teatrale di Vinicio Capossela, la recitazione cantata di Alessandro Mannerino e la canzone civile di Simone Cristicchi che, dopo essere partito dalla canzone teatrale al tempo della vittoria a Sanremo con “Ti regalerò una rosa”, è approdato al teatro canzone con “Magazzino 18”, il posto nel porto vecchio di Trieste dove gli esuli istriani lasciarono in deposito i loro oggetti personali nell’esodo del 1947.
In definitiva, il genere è più che vivo che mai e può diventare uno sbocco importante per gli artisti, nell’era in cui il Cd è a rischio di sopravvivenza, sopraffatto dalle piattaforme liquide. Per i cantautori potrebbe essere la destinazione finale di chi ancora oggi pubblica quelli che una volta si chiamavano concept album. Senza contare che la musica “da guardare” in America si produceva dagli anni Sessanta con il teatro musicale del rock, avanguardie e light show. Jim Morrison dei Doors, conosceva bene la tragedia greca e comparava lo spettacolo della sua band a un dramma poetico. E quando Jimi Hendrix suonava la chitarra coi denti e alla fine bruciava lo strumento non faceva altro che uscire di scena come a teatro. Né più né meno di come fece addirittura Nicolo Paganini quando il concerto lo iniziò avviandosi sul palco entrando però in scena dal fondo del teatro e passando in mezzo al pubblico che lo paragonava al diavolo. È musica da guardare
Articolo del
13/11/2019 -
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