Ebbene sì, cari amici vicini e lontani.
Avete la fortuna di trovarvi in uno di quegli articoli in cui non vi dovrete sorbire la mia solita paternale.
In realtà parlo poco, davvero giusto qualche riga, solo per spendere due parole su quanto in realtà discutere di certa musica non stanchi mai e non sia mai troppo (sì, anche questa intervista, così come quasi tutte le altre che ho fatto senza passare dagli uffici stampa è una scelta di campo, per certi versi).
E poi anche per dirvi, in anteprima, che Roberto Michelangelo Giordi, avrete capito che il protagonista dell’intervista è lui, sta lavorando ad un nuovo album, di cui saprei anche qualcosina in più, ma oggi sono particolarmente carogna e non dico nulla.
Per il resto, vi lascio alla lettura, che è sempre la cosa più importante e foriera di spunti interessanti.
Parto da “Les Amants de Magritte” perché c’è qualche tema che mi sembra abbastanza interessante da approfondire. Intanto la distinzione- dicotomia che c’è fra “histoire d’amour” ed “histoire de guerre” che c’è accanto ai vari brani. In che misura entrano in una canzone? E, più nello specifico, “amore” e “guerra” sono influenze esterne o condizioni interne?
In realtà nasce già dal dipinto omonimo di Magritte, di questi due amanti che si amano a viso coperto, quindi questo amore, con la sua bellezza, con la sua semplicità, con la sua normalità, che viene quasi coperto, nascosto in un tempo di guerra. Da lì ho pensato di dividere il disco, appunto, in “histoire d’amour” e “histoire de guerre”. Nelle storie d’amore ci sono, ovviamente tutte le canzoni d’amore, amore che parla quasi sempre al negativo, dove c’è sempre qualcuno che cerca qualcun altro, che forse non trova. Nella seconda parte, nelle storie di guerra, c’è il racconto del mondo contemporaneo, ci sono pezzi che criticano il mondo contemporaneo, “La musica è finita”, dove si racconta della chiusura dell’umanità all’interno delle proprie abitazioni, mentre fuori c’è un deserto, che è un po’ quello che è accaduto durante il lockdown, oppure “Barbari”, che riprende un po’ la gaberiana maniera del “i barbari siamo noi”. Poi amore e guerra sono entrambe le cose, sia condizioni interne che influenze esterne, e soprattutto sia negative che positive. C’è quasi un “noi” ed un “il mondo”, che sono due fattori che finiscono per confluire, il mondo siamo noi, ecco.
Continuando sul filone francofilo: le tue aderenze con l’oltralpe mi fanno tornare alla mente due altri grandissimi come GianMaria Testa e Piero Ciampi. Come mai certi linguaggi, probabilmente umani prima che artistici, vengono recepiti con discreta difficoltà in Italia? In Italia il problema principale, tralasciando il trattato sociologico che ci sarebbe da fare a proposito di quello che è accaduto a livello culturale negli ultimi trent’anni, non solo qui da noi, ma proprio in generale, anche con le conseguenze del post muro, della globalizazzione e del neoliberismo, diciamo che soffriamo del fatto che sia tutto in mano al mercato. Non c’è più la volontà di distribuire un tipo di musica, e di promuovere questa musica, che tu giustamente hai definito più umana, ma che è anche più colta, perché ovviamente, lasciando tutto in mano al mercato, tutto ciò che è cultura e tutto ciò che è bellezza viene appiattito: si teme che non venda. Forse in realtà si teme anche di istruire, di elevare troppo il popolo. E se il popolo lo elevi troppo, lo fai pensare troppo, finisce che non è più un consumatore. Questa è la ragione più ovvia, ecco. Quindi in Italia c’è questa grandissima difficoltà a fare delle cose alto livello, e prima ancora c’è la volontà di non parlare proprio di certi temi. In Francia invece la situazione è leggermente diversa- attenzione, non stiamo parlando dell’isola felice, di Utopia, non è che vai là e trovi la metaforica America del cantautorato- però c’è l’attenzione e l’interesse a valorizzare quello che è di nicchia, quello che non passa attraverso il mainstream o la multinazionale o questi programmi televisivi come i talent. In Francia c’è ancora la volontà di dar spazio a queste cose, ed infatti ci sono le librerie indipendenti, non ci sono le tassazioni ai distributori: i miei dischi francesi, “Les amantes de Magritte” e “Il Sogno di Partenope”, stanno in Fnac perché io ho il diritto di stare su uno scaffale così come Phil Collins o chiunque altro. E devo dire che anche la canzone d’autore francese, che, come sappiamo tutti, ha vissuto dei tempi magnifici, sta soffrendo della stessa crisi che c’è in Italia, quella che viene inflitta dai talent e dal sistema mediatico di massa.
Ne “Il soffio”, invece, c’è una ulteriore vena poetica, che si vede perfettamente dai testi di Alessandro Hellman. La suggestione letteraria mi porta ad una domanda che mi capita di fare spesso, soprattutto occupandomi di musica d’autore: la relazione fra musica d’autore, e quindi grandi testi, e poesia. La canzone è una forma di letteratura a sé o è una emanazione della poesia? Cerco di risponderti, è un po’ difficile ma ci proverò! Negli ultimi anni abbiamo visto Dylan premiato col Nobel alla letteratura, quindi sembra che la canzone sia entrata nel canone letterario e viene messa sullo stesso gradino di un romanzo oppure proprio della poesia, ed allo stesso valore venga premiata. La canzone è arte, a tutti gli effetti. Penso in realtà che dipenda molto dalla scrittura: i testi di Dylan o di De Andrè sono degli esempi dal grandissimo valore letterario. Però, ecco, la poesia non sempre può essere messa in musica, e ci sono degli esempi e degli esperimenti in merito: un compositore di musica colta musicò “L’Infinito” di Leopardi, e molti risero al risultato finale (che, ti dirò, a me piace pure). Però è chiaro che quello di prendere “L’Infinito”, che già di per sé ha un suo mondo, ed aggiungergli sopra altri elementi, che sono quelli delle note e dell’armonia e della melodia (ed i rispettivi mondi che vi ruotano attorno) è un esperimento abbastanza cervellotico. Spesso si rischia di aggiungere altre cose ad un qualcosa che già di per sé è ricco. Ed infatti la canzone perfetta è quella che riesce a fondere un testo dal valore alto con una melodia ed una armonia anch’essi alti. Se noi partiamo da una grandissima composizione musicale e ci mettiamo delle parole sarà un esperimento fallimentare, a ruoli invertiti, cioè partendo da una grandissima composizione poetica, e ci mettiamo della musica l’esperimento potrebbe, si badi bene, potrebbe, fallire. Dovremo andare a calibrare le due cose, si arriva così a dei livelli veramente alti.
Ci sono aderenze fra la scena musicale francese e quella napoletana? Intendo proprio come estro e creatività… Sono due mondi completamente diversi, proprio la luna ed il sole. In realtà io a Napoli faccio la produzione dei dischi, nonostante molto spesso durante l’anno stia a Parigi molto spesso. Non perché in Francia non siano bravi, ma proprio perché a Napoli ci sta una spinta più goliardica, più immediata alla musica, laddove a Parigi c’è una attenzione più accademica: i musicisti francesi, soprattutto i jazzisti, suonano tutti allo stesso modo, sono più “global”, dico io. Fanno una contaminazione che è stata già codificata, fanno la word music perché l’hanno sentita fare così. Invece a Napoli c’è la continua voglia di sperimentare qualcosa, ed infatti col mio produttore artistico facciamo quello, come esempio pratico ti posso dire che noi abbiamo impiantato sugli stilemi della nostra musica il duduk, che è uno strumento della tradizione armena: in Francia non lo avrebbero mai fatto. Diciamo che Parigi la uso per riflettere, mentre a Napoli agisco.
Il gioco della contaminazione stilistica è centrale nei tuoi lavori. Come si riesce a fondere bene tutti questi elementi pur mantenendo la propria identità?
La cosa più importante per un artista, e soprattutto per un musicista, è sapere sempre da dove si viene, conoscere l’importanza delle radici. Le radici sono fondamentali per fare qualsiasi cosa, in tutte le forme d’arte. Senza radici si finisce in un appiattimento generale, finiamo tutti a fare le stesse cose, quindi bisogna sapere da dove si arriva per contaminarsi con l’altro, tenendo sempre l’intelligenza di riconoscere la propria identità. Le identità sono importantissime, e sono l’esatto opposto del fascismo a cui si tenta di ricondurle. Assolutamente. Io sono per le identità, quelle nazionali, regionali, locali, nel rispetto delle altre identità e dell’integrazione, dello scambio reciproco. Questa è una cosa che ho fatto in tutti i miei dischi, veramente in tutti quanti, e ne vado veramente fiero. Soprattutto nell’ultimo, anche perché sono partito dalla canzone napoletana ed ho incontrato i suoni del mondo. Poi, ecco, la mia ricerca non è influenzata dai prodotti del mainstream attuale, ma cerca di prendere dalle musiche medioevali, dal barocco, dal neoclassico, dai francesci dell’impressionismo.
Con “Il sogno di Partenope” hai dato una tua lettura di alcuni episodi della canzone napoletana. Possiamo tirare fuori varie considerazioni, e la prima che mi viene in mente è che la scena campana ha sempre tirato fuori ottimi artisti, penso a La Maschera, Gnut, Giovanni Block o Francesco Di Bella. E, soprattutto, ha sempre puntato molto sulla sperimentazione, e penso a Pino Daniele, Napoli Centrale, gli Osanna. Adesso, Daniele Sepe a parte, che mi sembra l’ultimo vero baluardo di questa aria fresca, c’è stata un po’ di omologazione, di voglia di vendersi in più o è finita l’ispirazione?
In parte sono d’accordo con te, in parte no. Le proposte meno conosciute fanno veramente delle belle cose, quelle più alla ribalta mi piacciono un po’ meno, proprio perché, come dici giustamente tu, seguono l’appiattimento che è avvenuto in tutta Italia, non c’è più il terreno fertile per fare una buona contaminazione. Gli anni ’80 in Italia furono ancora una stagione felice, la fase neoliberista era appena iniziata e non c’era questa omologazione di massa, per cui un personaggio come Pino Daniele, che sentiva il disco di Chick Corea o la bossa nova brasiliana era ovvio che riuscisse a fare da spugna, a contaminarsi. Oggi invece sentiamo da venti, trent’anni le stesse cose, e quindi anche chi è cresciuto negli anni ’90, nonostante parli in napoletano, magari, è cresciuto col solito rap, che adesso è diventato trap. Qualcuno a Napoli lo fa ancora, appunto, Gnut e Giovanni Block sono veramente bravi.
Rimango sull’ambito della canzone popolare: è ancora un discorso anche politico, quindi rimane in grado di essere una specie di rivalsa delle classi più deboli o è solo una sorta di figurina incollata sui quadernetti degli ascoltatori più hipster, alla Bennato di “Rinnegato”? Domanda difficilissima e molto interessante. Come dicevi tu, purtroppo, la protesta popolare è rimasta incollata a Bennato ed a quegli anni lì. Oggi è molto difficile fare una protesta popolare, ed è ancora più difficile che questa protesta, una volta nata, venga sostenuta. Molto spesso le vere proteste oggi non hanno nessun seguito, e quelle di oggi son spesso finte, sono un po’ spariti i temi veri, non ci sono più le questioni sociali, rimangono quelle- sacrosante-sui diritti civili, che comunque tendono, in qualchemodo, ad appiattirci su valori estetici e probabilmente anche morali. Parafrasando qualcuno, “non ci sono più le proteste di una volta”. Guarda, adesso ti faccio sorridere: sta quasi andando a finire che la protesta la facciano i trapper. Poi leggi i testi, lo sai meglio di me, e fanno una protesta di riscatto sociale, che avviene con una dinamica abbastanza singolare: io, che sono sfigato (che poi è spesso finto, a cominciare da un Achille Lauro che viene dalle fila borghesi della Roma dei Parioli) mi batto facendo un pezzo in cui denuncio tutto, e lo faccio perché voglio diventare ricco. Pensa un po’ che protesta c’è!
La musica popolare nelle sue forme più alte è una forma di resistenza artistica? Sempre. Anche se pure lì dobbiamo stare attenti, perché molto spesso oggi il “popolare” è di clichè,e penso alla pizzica salentina o alla tarantella napoletana o alla canzone classica napoletana suonata da Renzo Arbore. Quindi dobbiamo stare attenti a non far diventare questo “popolare” come qualcosa che fa parte del passato ed a come era la nostra terra anticamente. Ho cercato di farlo con il brano che tu citi dopo, con “Cronache globali degli anni zero”, in cui ho preso il popolare per denunciare la situazione politica attuale, anche perché penso sia quello il modo di pensare adesso la musica popolare, riformulandolo con la modernità, ma non sempre ci si riesce.
C’è qualcuno, dell’ambiente campano e non, con cui ti piacerebbe collaborare? In Campania con molti colleghi, ho già collaborato con Daniele Sepe, che è il più grande musicista napoletano attuale. Mi piacerebbe collaborare con Maria Pia De Vito, che è una jazzista ed una grandissima, che contamina i suoni del mondo con quelli del jazz, e che parte da Napoli, come me. Mi piacerebbe collaborare molto con Roberta Giallo, che è anche molto simpatica. Un’altra con cui mi piacerebbe molto collaborare è Lavinia Mancusi, che citi sotto, e forse faremo qualcosa insieme, chissà. Insomma, mi piacerebbe collaborare con tutti coloro che danno un senso profondo, e soprattutto umano, alla musica.
L’ultima! Sei stato a Musicultura un anno fa, con un brano bello ed importante come “Cronache globali degli anni zero”. Che impressioni hai avuto, proprio a livello di percezione di certi brani? Insomma, tu, come anche Lavinia Mancusi o Gerardo Pozzi siete arrivati “solo” alle finali, Luca Bocchetti ha vinto “solo” come miglior testo, mentre la maggior parte delle preferenze è andata verso un tipo di canzone molto più “classica” e senza particolari colpi di reni, ecco… Facciamo che sarò diplomatico, ecco. Hai citato giustamente Lavinia e Gerardo, che sono due amici e due persone con le quali ci stimiamo infinitamente, che sono arrivati fino alla finalissima in televisione (io mi sono fermato al gradino precedente) e poi non sono stati premiati, e là ci son rimasto molto male anche per loro. Anche perché Musicultura, come hai detto tu, tende ad appiattirsi, anche perché nonostante una parte della giuria veda effettivamente le cose originali ed innovative- dando spazio alla musica, anche popolare, di un certo tipo-, e le apprezzi anche, poi non va fino in fondo a farle vincere. Ed alla fine fa vincere, quasi sempre, il politically correct. Probabilmente nel mio caso hanno preferito non avere troppi problemi mandandomi in Rai, dal momento che il mio pezzo era abbastanza esplicito nei suoi riferimenti politici e non. Per cui fecero il palinsesto con l’etnico, Lavinia, il cantautore più classico, Gerardo, l’altro più pop, Lettieri, l’altro che fa ridere, Enzo Savastano. Ed alla fine a Savastano diedero il premio della critica e fecero vincere Lettieri,con una canzone carina, ma decisamente più classica. Quindi sì, non sono originali fino in fondo.
Articolo del
07/10/2020 -
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