Nel 1979 gli ACDC avevano fatto il botto. Highway to Hell è il loro più grande successo commerciale ed anche uno degli album più apprezzati della loro discografia che dal ’75 al ’79 vantava numerosi album capolavoro come T.N.T. o Let There Be Rock.
Va tutto alla grande: la Atlantic Records ha trovato un altro pezzo da 90 (la Atlantic negli anni ’70, tra gli altri, aveva anche i Led Zeppelin sotto contratto) e l’immagine del gruppo è granitica, chi vorrebbe affossare il gruppo hard rock probabilmente più famoso del mondo? I due fratelli Young alle chitarre si completano come due pezzi vicini dello stesso puzzle: Malcolm ci mette la teoria musicale e l’estro compositivo, Angus ci mette le evoluzioni e la presenza scenica. L’album vende la cifra record di 1 milione di copie nel solo primo anno di uscita e, anni dopo, nel 2003, viene piazzato al numero 200 nella classifica dei 500 migliori album di sempre da Rolling Stone.
Il gruppo sta pensando di confermarsi come uno dei gruppi migliori degli anni ’70 con un altro album degno di Highway to Hell, da far uscire magari l’anno dopo. Solitamente, in piena attività, i musicisti hanno una carrellata di brani “di scorta” che talvolta decidono di inserire all’interno di un successivo lavoro a seconda dello stile che decidono di intraprendere. Ma confermare un successo come quello non è assolutamente scontato. Si parte però da un teorema assoluto: squadra che vince non si cambia. La formazione composta dai Fratelli Young, Bon Scott, Cliff Williams e Phil Rudd è solida e insostituibile dai tempi di Powerage e i successi sono stati notevoli, anche nei live. Dunque, niente cambi.
Il gruppo parte alla volta dell’Europa per alcune date del tour di Highway to Hell sempre più convinti di voler far uscire questo fantomatico successivo disco. Qualche materiale su cui poter lavorare c’è già, ma niente di definitivo naturalmente. Dunque lasciano per il momento da parte il futuro album e si mettono a fare cose che si fanno durante un tour mondiale: alcol, rock’n’roll, stupefacenti e groupie volenterose un po’ ovunque. In una gelida sera di febbraio il talentuoso front-man nonché cantante Bon Scott segue un suo amico (tale Alistair Kinnear) al Music Machine, un locale di Cadmen Town nel centro di Londra oggi noto come KOKO.
È risaputo che l’alcol scalda anima e corpo e in una serata invernale londinese c’è sicuramente bisogno di calore. I due partecipano ad un binge drinking che altro non è che un gioco a chi riesce a bere più alcolici differenti nel minor tempo possibile. Alla faccia del calore! Dalle mie parti c’è un detto che recita, parafrasandolo in italiano corretto, che “non è il problema di bere, ma di non potersi fermare”, e così quella sera il cantante scozzese sviene a seguito della movimentata serata. Kinnear, visto lo stato in cui era Bon, lo lascia riposare all’interno della sua Renalut 5 per tutta la notte parcheggiata al numero 67 di Overhill Road in East Dulwich, South East London.
Ma la nottata in macchina non gli bastò a riprendersi da quel “gioco”: Bon viene trasportato d’urgenza al King’s College Hospital ma viene dichiarato morto per intossicazione da alcol il 19 febbraio 1980. “Morte accidentale”, recita il referto. E adesso? La squadra che non doveva essere cambiata perde una delle sue pedine più importanti e talentuose! Come può il gruppo anche solo pensare di continuare a suonare in queste condizioni? Non è un mistero che i fratelli Young e compagni pensarono seriamente di non proseguire nella loro carriera musicale, come puoi concertarti con una perdita simile?
Malcolm, da buon fratello maggiore, cerca di convogliare il dolore per la perdita del compagno e amico Bon in una forza che avrebbe portato al prossimo album. Quello è l’obiettivo, l’album della conferma per il pubblico e del riscatto personale per il gruppo. Viene contattato dunque Brian Johnson, cantante e compagno di band di Malcolm ai tempi dei Geordie: un buon cantante certo, ma niente di paragonabile con l’iconica voce di Bon Scott. Almeno questo è quello che vogliono sentirsi dire i fan accaniti degli ACDC degli anni ’70. Ma anche questo è il bello della musica, ognuno ha un’opinione diversa e non ne esiste una assoluta e per forza corretta.
L’album dunque si farà. Il gruppo si sposta ai Compass Point Studios di Nassau alle Bahamas per cercare la giusta tranquillità e concentrazione per comporre il prossimo capolavoro. Tra un bagno in mare ed un cocktail in una noce di cocco, tra una tempesta tropicale (tra l’altro fonte di ispirazione per Hell’s Bells) ed un’invasione di granchi all’interno dello studio il gruppo a velocità miracolosa riesce a scrivere, provare e registrare il più grande successo commerciale della loro carriera e dell’intera storia della musica, secondo in questo senso solo a Thriller di Michael Jackson. Il 25 luglio 1980, a poco più di cinque mesi dalla perdita di Bon Scott, viene pubblicato Back in Black, il più iconico album degli ACDC. Simbolo della rinascita, della consacrazione, di voglia di fare rock e di continuare ad essere una delle più grandi band di sempre.
Per Back in Black il taglio col passato è piuttosto netto, in quanto del materiale precedentemente scritto non è stato utilizzato quasi niente per le tracce definitive. È tutto venuto fuori da nuovo, i testi di Brian, le melodie delle chitarre, e il sound molto hard tipico della loro discografia. Brian Johnson è perfetto. Non sbaglia praticamente niente facendo ridurre al minimo le take di registrazione per le tracce definitive. Un innesto più che azzeccato quello del cantante inglese che riesce a riempire, per quanto possibile, l’incolmabile vuoto lasciato dal compianto scozzese.
Tony Platt, tecnico del suono esperto e firma dei potenti suoni di Highway to Hell, segue la fase di post produzione e mixaggio tra Londra e le Bahamas per portare il sound degli ACDC al livello successivo e la copertina completamente nera in segno di lutto con il nome in rilievo, danno quel qualcosa in più che serviva assolutamente per far sì che Back in Black fosse qualcosa di memorabile. L’album è dunque un capolavoro, 10 tracce per circa 40 minuti di ascolto di una potenza e perfezione impensabili dopo tutta la vicenda Scott. Back in Black ha venduti più di 50 milioni di copie, di cui 22 solo negli Stati Uniti, e si piazza al 77 posto nella stessa classifica di Rolling Stone.
Articolo del
09/12/2020 -
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