Comincio questo articolo salutando Cesare Romana, uno dei maestri di un certo modo di trattare la materia musicale, di un certo modo di raccontarla. E’ stato uno di quelli che mi hanno definitivamente fatto innamorare dell’opera di un certo Fabrizio De Andrè, genovese.
A lui il mio più caldo abbraccio.
Lo ricomincio tirando in ballo un’altra collega, vale a dire la cara Betta Malantrucco. Voglio riprendere (e meglio ancora, riproporre) una questione sempre attuale, che sollevò un paio di mesi fa con un suo post su Fb. Parlo del “sovraffollamento artistico” al quale soprattutto noi siamo soggetti: sposto l’esempio su di me, che sono un pischello. Bene, quando mi va male e siamo in periodi di stanca, fra comunicati e robe simili, viaggio ad una media di almeno dieci/ quindici dischi a settimana, più svariate proposte di singoli o semplici comunicati.
Che, preso così, sarebbe un dato anche molto positivo: più si crea, più voci ci sono, meglio è.
Ed è abbastanza ovvio che, esattamente come scriveva Betta, io non stia pretendendo un abbassamento delle proposte, chiaramente il punto è un altro.
Troppa carne al fuoco rischia di bruciarsi, traduco così mi faccio comprendere.
E parto da un altro presupposto, avrete notato, nel corso dei miei quasi cento articoli, che mi occupo quasi esclusivamente di quella che viene chiamata “canzone d’autore”, di cantautori e cantautrici e di un qualcosa che abbia, al di là del genere musicale, un testo scritto con tutti i sacramenti. O, se non proprio con tutti, almeno con i miei, ecco.
Avendo questo come assunto, nonostante io sia molto attento ed abbia una discreta rete di contatti, nell’orgia di e- mail che galleggiano sulla mia casella di posta elettronica, ho rischiato di perderne una che sarebbe stato un peccato perdere.
Marco Parente quest’anno ha tirato fuori una vera e propria trilogia, “Poe3 is not dead”, che parte dalla beat generation di Ferlinghetti e Ginsberg, devia per Dino Campana ed arriva a Parente stesso.
Tre album.
Che mi stavano per sfuggire.
Ora, dal momento che molti uffici stampa, col passare del tempo e degli articoli, imparano a conoscerci, e sanno di cosa ognuno di noi si occupa, non sarebbe un peccato rischiare di farci perdere uscite delle quali 99/100 ci andremmo ad occupare?
La butto lì: perché non creare un bel database, una specie di piattaforma che fa da newsletter unica per chi si occupa, nel nostro caso, di canzone d’autore? I vari uffici stampa- evitare la dispersione di artisti ed uscite credo sia una cosa che convenga a tutti- hanno i nostri contatti e, ribadisco, grossomodo ci conoscono, sanno di cosa ci occupiamo e cosa potrebbe interessarci. A quel punto basterebbe davvero girarci di volta in volta le varie cartelle stampa, così saremmo chiaramente liberi di spaziare e di cercare artisti anche al di fuori di quella bolla lì ma, al contempo, non rischieremmo di perderci cose che ci interesserebbero sul serio.
Adesso non venitemi a chiedere come realizzare questa cosa, non lo so. Potrei solo buttare idee, come questa stessa: io racconto di musica, mica sono Manny l’Aggiustatutto!
A questo punto, giusto per rimanere in tema Parente, qui c’è una copiosa intervista che, in un primo momento, avrebbe dovuto comporre uno speciale su Marco e sui suoi ultimi lavori. Però Marco è stato un ottimo narratore di sé stesso, per cui io i dischi, che si chiamano, nell’ ordine, “American Buffet”, “I passi della Cometa” e “Life”, ve li consiglio molto meno prosaicamente di quanto faccia di solito.
E vi lascio alle parole di Marco Parente: capirete benissimo perché sono tre uscite che non dovreste rischiare di perdere.
Da dove nasce la trilogia “Poe3 is not dead” e, soprattutto, che messaggio ha al suo interno?
Mah, sai, per me l’arte non ha più una funzione, semmai una disfunzione. Tutto quello che faccio è legato, se vuoi, al territorio della pubertà, a quello che la filosofa spagnola Maria Zambrano definiva “territorio della poesia”, vale a dire che il luogo della poesia è la pubertà, che si contrappone al luogo della filosofia, che ha una funzione quasi di “possesso” delle cose, puoi anche fartene carico, accumularle. E invece io sono dalla parte della poesia, che non va più intesa come quella cosa che va scritta su un foglio bianco: quelle sono state scritte, e sempre se ne scriveranno, sono figlie di una urgenza, di una esigenza e di un metodo. Però la poesia in sé non è un metodo di vita. Quando ho letto questa cosa in Maria Zambrano mi è piaciuta molto, mi ha dato un sussulto.
Ed anche in questa trilogia c’è la scoperta, scoperta un po’ di tutto: l’approccio, se ci penso bene, è rimasto lo stesso, identico. Certo, c’è più ragionevolezza, esperienza, maturità, chiamala come vuoi, ma questo crea anche più confusione, per certi versi. Però poi il momento in cui scatta la scintilla, in cui prendo posizione rispetto al mondo, alle cose ed alle persone rimane, rimane di quel tipo di istinto lì. Che è un istinto universale, che poi ognuno traduce nel modo che gli pare migliore, con la pittura, con la danza, con la parola, con un suono, con tutta l’arte in generale. E questo per me è ciò che racchiude il termine “poesia”, che, come vedi, non è intesa in senso stretto, ma nel senso più alto e più ampio del termine.
Che poi era l’ ab-joy di cui parla Pasolini, in qualche modo: Pasolini dice di agire in preda ad un raptus poetico, l’ab- joy è questo termine mutuato dal provenzale, dell’usignolo che canta, appunto, ab- joy. Ed è questo raptus poetico che va molto al di là anche di quelle che sono le tue convinzioni, la tua struttura, aggiungerei anche le tue convenzioni. E’ questo momento magico, che avviene in un istante. Ed io, quando traduco in termini poetici, quando parlo di poesia, penso di aver agito seguendo sempre questo modus operandi, questa azione che avviene nell’atto creativo. Essendo, come detto, un atto che nasce al di fuori di qualsiasi convinzione e convenzione, per tornare alla domanda, posso dire che non c’è un vero e proprio messaggio, ecco.
C’è una affermazione di un luogo, si sta dicendo che quel luogo non è morto. Ed infatti sono tre modi in poesia di ripercorrere questo tipo di approccio: parte dal piccolo Buly Pank, il mio soprannome d’infanzia, parte dall’inizio, dal raptus poetico puro, lì ho agito in una sorta di transfer, sono tornato indietro e mi sono preso la libertà che non ho mai avuto in vita mia, ed è venuto fuori quel lavoro lì. Poi, al netto del cambiamento di vestito, di cornice, arriva l’approccio alla poesia di Dino Campana, ed anche da quel punto di vista lì arriva un percorso, che non è quello del matto, del poeta folle che muore in manicomio, quanto piuttosto quello del poeta estremamente lucido, che quando scrive entra in sintonia con la natura e con l’universo e con la realtà delle cose, e quindi inevitabilmente è ipersensibile al disagio, con tutto e con tutti, ed ha uno spirito “d’attacco”, sfoga la sua contraddizione, il suo disagio, come lo fa un punk.
Poi c’è “Life”, che della trilogia è il passaggio con una visione più tradizionale, che si esprime attraverso il concetto di disco: dieci canzoni, lavorate, a me piace pensare, con l’esatto percorso di quando io scoprivo i dischi, qualcosa che ti prende molto tempo, anche se nasce da un istinto. Prendersi del tempo è una di quelle cose che sta cominciando a diventare un lusso, è quasi un rischio farlo, soprattutto finanziariamente parlando. Ecco, io ho deciso di rischiare tutto, e l’ho fatto per difendere il momento creativo. Mi sono detto “O il disco lo faccio così o non lo faccio più, rimanevo fermo sulle posizioni di “Disco pubblico”. E invece poi ho deciso di fare un disco proprio ortodosso, ho pensato a delle canzoni che potessero essere indipendente l’una dall’altra, ma che potessero anche passare la mano l’una all’altra, nel senso che dieci canzoni includono la possibilità di fare un discorso, una sorta di racconto breve.
Attenzione, “Life” non è un concept, il concept è solo nel titolo, nella parola: quella parola stessa è un concept, è talmente vaga e talmente universale che finisce per comprendere tutto e tutti. E partendo da questo presupposto, ti posso dire che qualsiasi cosa ci si vede dentro è giusta, anche se magari non è la stessa che ci ho visto io. Io ho fatto solo da regista, ho cucito ed ho costruito questo insieme di canzoni, che ovviamente non è una semplice compilation, ma forma un vero e proprio disco. La sua finalità è quella lì, essere un bel disco, che non vuol dire essere fine a sé stesso, più che altro la finalità è sé stesso. E lì non c’è più bisogno di scomodare poesia o filosofia o altre cose, perché la fa da padrone quell’approccio lì, la volontà di fare quella cosa. Poi chiaramente si può parlare di tutto quello che c’è intorno, delle parole, degli arrangiamenti, dei mondi sonori.
Ci sono tantissime cose dentro, è stato un disco molto lavorato. E lavorato in solitudine: sono ritornato al primo disco, anzi… ai provini del primo disco! Completamente da solo, concentrato, con i pochi mezzi che avevo a disposizione. Chiaramente rispetto a quel primo disco c’è molta consapevolezza in più, ma è anche passata tanta acqua sotto i ponti. Però sono ritornato a quel tipo di sussulto, dove si gioca molto ed ogni cosa è una scoperta. E’ stato un lavoro di associazioni, soprattutto a livello sonoro: è un disco ipermolecolare, pieno di dettagli invisibili che però fanno la sostanza del disco stesso. Questo lavoro l’ho potuto fare perché tutti i pezzi erano già ben strutturati, molto ben cesellati come scrittura, armonia, tonalità.
Anche a livello vocale: ho deciso di non dover mai forzare la voce, sono su tonalità con cui sono a mio agio, è quasi una voce fuori campo, da osservatore di questa vita che scorre, che non è poi molto diversa dalla mia: semplicemente sono due posizioni diverse, loro la stanno vivendo, io la sto osservando.
Con “American Buffet” ti sei preso il lusso di tirar fuori le tue personalissime “Rimembranze” o c’è dell’altro dietro?
Non l’ho mai vista da questo punto di vista, però il fatto che non l’ho messo a mio nome, ma sotto quello pseudonimo, il fatto che mi ricorda quel tipo di libertà di azione e di rivoluzione personale, e di scoperta…
In realtà, come ti dicevo prima, l’ho vissuto come una sorta di transfer, l’ho tirato fuori nelle pause di “Life”, ed- un po’ per gioco un po’ per caso, ho iniziato a buttare giù questo lavoro, cominciando a cantare in finto inglese, che poi è rimasto tale. Ed il discorso è che non era partito con quelle intenzioni: avevo solo improvvisato, come di solito si fa con le melodie, in questo inglese maccheronico. Poi è arrivata un’altra forma, già dal titolo, che non è un qualcosa di macchiettistico, è decisamente creativo: un brano come “URSS blues” è tutta improvvisazione, non c’era niente prima, solo un giro di chitarra. Poi ho messo la voce. Prima versione. Quello che senti è quello che è stato. E’ stato un raptus poetico totale, vera improvvisazione. Ed anche composizione: alla fine quello è un pezzo, è stato composto. Con un linguaggio che non esiste, che diventa talmente primordiale che rimanda al mittente delle origini che non gli appartengono, un cortocircuito coloniale e culturale. Lo considero un disco completamente libero. Forse più quello che le Rimembranze. Le Rimembranze le posso vedere solo io, sono state associazioni che poi fanno parte di quello che è diventato il mio dna, ci sono citazioni, rimandi, tanti mondi che si passano la parola, associazioni infantili.
Che alla fine diventano anche estetiche. Però alla base di tutto c’è la libertà, non quella naif, quella vera, quella che è alla base del raptus, appunto. Ed è venuto fuori un lavoro che è anche diventato un visual, una specie di cortometraggio “al contrario”, di cui prima è nata la colonna sonora e poi le immagini. E’ un lavoro complesso, che trovo io stesso ancora abbastanza difficile da decifrare.
In “I passi della cometa” hai ripreso e fatto diventare canzoni i Canti Orfici di Dino Campana, mentre su “American Buffet” compaiono Allen Ginsberg e Ferlinghetti. Intanto il filo che unisce Campana alla beat generation è esclusivamente quello della poesia o c’è dell’altro? E poi, già che ci siamo, per te dove sta il confine fra canzoni e poesia, ammesso sempre che ci sia, ovviamente…
Non c’è un confine. Se stai parlando di “poesia” come parleresti di “pittura” o di “danza”, come forma d’arte, allora le due cose io le tengo sempre divise, mi ha fatto sempre innervosire- adesso fortunatamente capita più di rado- quando mi dicevano che un pezzo era talmente bello che era una poesia, quasi come a voler dire che se sei un bassista bravissimo sei un chitarrista! E no! Sono due cose diverse. Certo, nell’ordine del “luogo della poesia” da cui sono partito, tutto è poesia, anche una danza flamenca può esserlo.
Duchamp è poesia. Sono modi di essere poesia, non di farla: la vivi come opera d’arte in te stesso, la diventi. Il confine non c’è e non deve esserci. Semmai, dal punto di vista della forma è molto divertente, perché per esempio, io su Campana non volevo fare un reading, non li sopporto, non volevo fare il commentino musicale alla lettura. Volevo capire in modo più rispettoso e più stimolante come approcciare un grande poeta come Campana. E l’ho trovato nella modernità e nella musica: da musicista ho lavorato sul paesaggio sonoro della poesia di Campana, sul ritmo dei suoi versi. Per esempio, “Batte botte” è un rap ante litteram, ha una scansione di una modernità che quasi esce fuori dal moderno stesso!
Ha strettamente a che fare con la musica, i suoi versi hanno una musicalità ed una ritmicità modernissima, lui lo sapeva. E voleva proprio quello, lo andava cercando. Ecco perché non era il folle che camminava con le scarpe rotte per l’Appennino tosco- emiliano. Ed io l’ho approcciato cercando di capire la sua poesia dall’unico punto di vista attraverso il quale potevo approcciarmi, cioè la musica. Il paesaggio sonoro è fortissimo, e mi sono anche fatto guidare da un saggio di Matteo Meschiari, un antropologo attentissimo sul paesaggio sonoro in Campana. Il famoso soundwalking, la camminata sonora, esce da quel saggio lì. Ed è esattamente quello che cercavo, è la definizione perfetta per quello che stavo cercando di fare. Non so dove siamo andati a finire col nostro discorso, ma resta il fatto che la poesia non ha confini, così come la canzone.
Ed è bene non metterceli, e soprattutto non fare confronti o paragoni in termini di “alto” e “basso”. Però, per esempio, se parliamo di Leopardi, come musicalità pazzesca aveva il suo foglio bianco. E qualsiasi cosa tu ci faccia sopra non ha senso, ed è un “di più” quasi patetico. Giusto un Carmelo Bene riesce a leggerlo, ed infatti lo legge come se fosse quasi un trombone, come una sinfonia. E non puoi leggerlo diversamente, sennò hai come imbarazzo il confronto con l’originale, che è la penna del poeta, il suo strumento. Io in Campana ho trovato un poeta molto vicino al mio mondo, ma proprio a quello musicale…
Si rientra quasi nel discorso che Bene faceva con la phonè, il recitare cantando…
Esatto, precisamente! E’ la musica che sta dietro alle parole, l’emozione. Ed a volte riesce ad aggiungere alle parole ulteriori significati. E quando avviene questo si arriva alla metapoesia: da due parole, da come tu le intoni, ne viene fuori un’altra.
“Life” doveva uscire lo scorso settembre. Però, in alcuni tratti sembra influenzato dal periodo attuale, penso a “nei palazzi nella spina delle scale un eco di famiglie in preda al panico per cena” in OK! Panico. E’ un discorso che apre ad un paio di riflessioni, intanto su quanto una canzone riesca ad essere contemporanea, se ci riesce, e poi su come si riesce a scrivere qualcosa del genere… è una specie di “realtà aumentata”?
Eh, può darsi. E’ che secondo me il compito dell’artista è proprio quello, osservare ed elevare, in qualche modo, la realtà. Questo disco l’ho scritto nel mio quartiere, esattamente da dove ti sto parlando ora. Però mi sono reso conto, e “Life” in questo senso è un buon termine, davvero universale, che quello che succede in ogni quartiere, al di là delle varianti culturali, linguistiche e geografiche, nel senso della vita, e di come si può descrivere il rapporto fra le cose e fra le persone, è sempre quello. Non è cambiato affatto. La dimostrazione è nel fatto che fai un disco come “Life”, ed un sacco di frasi, come quella che hai citato tu, che non viene minimamente da questo periodo, sono comunque valide.
Prendo le distanze dal voler spacciarmi per profeta perché devo essere onesto, perché le canzoni erano davvero già pronte, ma io per primo mi sono trovato a stupirmi. E’ stato un caso, e dimostra il fatto che le cose succedono, succedono sempre allo stesso modo. E le reazioni sono più o men le stesse. “Ok! Panico”, così come anche “Quando è che si ricomincia” – che col senno di poi poteva diventare uno slogan (ride)- non hanno niente a che vedere con quel periodo, nulla a che fare, ma il fatto che qualcuno ci veda quella cosa lì, in quel momento, e magari possa anche servire, come a me è servito far uscire ora Life”, che ho utilizzato come consolazione, se vuoi anche come reazione, a quei momenti, mi fa piacere. Così come il fatto che riesce a coincidere in maniera universale con le cose che accadono.
Quella “versione ufficiale del vivere ufficiale” sa di Ministero delle Verità di Orwell… che ne pensi?
Come ti ho detto all’inizio, chiunque ci può vedere quello che vuole, e tutto quello che ci si vede è giusto. Non ti posso dire né che ho pensato a quella cosa lì quando l’ho scritto né che mi ci fa pensare ora che me lo dici. Al tempo stesso mi viene da dire che sì, se questo è quello a cui t’ha fatto pensare, è giusto. Io magari te lo spiego in un altro modo, e quel pezzo lì, insieme ad “In mezzo al buio”, sono due piccoli racconti, che inizialmente ho scritto proprio come racconti.
E sono due cose che mi sono successe: in questa qui ero, come dico nel testo, sull’autobus, la testa poggiata al finestrino, certamente non con animo quieto, ed ho sentito esattamente quella frase lì, nella sua semplicità, nella sua veste quotidiana… “quand’è che si riparte da capo?”
Che può essere una cosa più universale, la possibilità di ripartire da capo, di azzerare le cose in ogni percorso nella vita delle persone? Oppure questo da capo avviene in un’altra zona, da un’altra parte. E lì mi fa pensare più a Brazil di Terry Gilliam, quando alla fine torturano il protagonista e la sua testa sembra che vada da un’altra parte, si ritrova con la sua ragazza in un tramonto in un bel paesaggio, uscendo da questo grigiore incredibile che è la tecnologia e la modernità. A me è successa questa cosa e mi è sembrato un attimo di comunione totale: mi è sembrato che tutti, in quel momento, oggetti compresi, stessero dicendo quella frase lì.
E credo che avvenga spesso, come fuga dalla realtà, questo creare una realtà parallela. Che non è una vita parallela, segreta, diciamo così. E’ come quando stai parlando e contemporaneamente stai guardando una cosa, ecco: in quei momenti lì stai vivendo due cose. In quel caso lì non è la vita ufficiale, quella conclamata, quella che ti dice che questo è nero e questo è bianco, ma viene dagli interstizi delle situazioni, dalle crepe. E lì sviluppa il suo percorso.
La ragazza di “In mezzo al buio” ha a che fare con la nostra coscienza e con gli autoinganni di cui parlavi in un altro brano?
Anche qui, il discorso è analogo a quanto detto. Sai, ad un certo punto diventa molto faticoso, quasi impossibile, essere onesti con sé stessi. In quell’occasione lì sono stato smascherato. Lo dico con una metafora, ma è successo davvero. Ero su un treno, Faenza- Firenze. Sale questa ragazza non vedente, si mette a sedere, io pateticamente faccio per aiutarla, ma non ne aveva assolutamente bisogno. E mi si siede davanti. Da quel punto in poi ho avuto la sensazione che lei mi guardasse dentro, stesse facendo una radiografia della mia anima, di quello che stavo vivendo in quel momento.
Ed era una cosa abbastanza buffa ed anche imbarazzante, io non sapevo dove guardarla e lei non mi vedeva. E questa cosa mi ha fatto un po’ pensare, ci sono altri brani che vanno in quella direzione lì. “Life” è un po’ anche questo, sondare la contraddizione nelle cose, l’assurdità. Eppure, nonostante questa contraddizione, che è anche quella della vita stessa, intesa come vissuto quotidiano, nessuno di noi, neanche quello ridotto peggio, è disposto a rinunciare alla vita nemmeno per un secondo. Questa contraddizione è esattamente quello che ho indagato, un po’ da osservatore, un po’ standoci profondamente in mezzo. E’ la contraddizione del caos, è più facile vederlo nel quotidiano fuori dai riflettori.
A proposito di fare l’osservatore… ricordo dello spettacolo fatto con Paolo Benvegnù, questa estate. Avevi quel microfono che somigliava ad un cannocchiale al contrario. Si può dire che in fase di scrittura hai usato questo cannocchiale capovolto?
Assolutamente sì. La cosa buffa è che ci sono delle altre foto, nelle quali ho tolto il coperchio del cannocchiale, che fanno vedere che nella parte finale di quell’aggeggio in realtà c’è un cono, un amplificatore, che però mettevo nell’occhio. Sempre per tornare alla musica, quello lì era amplificare lo sguardo, dare un suono a quello che si vede. Però hai ragione tu, nel senso… il cono va fuori, però l’occhio lo guarda e tutto torna dentro.
Temi che questa “realtà che ti imbarazza” e la “pubblicità che consuma la città” ti possano far perdere “Il gusto della via”?
Sì, abbastanza. E’ esattamente l’imbarazzo della realtà, lo diceva anche Tarkowskij: “Tu sei felice?” “Come fai a chiedermi se sono felice sapendo che ci sono la guerra, la povertà, che tu stesso a volte sei un incivile che provi delle miserie incredibili. Come fai a parlare di felicità?” Solo gli inglesi hanno la presunzione di aspirare a questo, diceva qualcuno. La realtà è imbarazzante, e può alle volte sopraffarti, e se lo fa sì, perdi il senso di te, il gusto della tua via, ne perdi senso e sapore, perché la stai subendo invece che viverla. La pubblicità diventa, anch’essa, veicolo e metafora del quotidiano, di una realtà comunque falsa.
E’ l’evidenza di una stupidità che spesso ci colpisce: passa una pubblicità in tv e tu la guardi e l’ascolti anche! Un coglione che sta facendo una pantomima per vendermi un cioccolatino o un’aspirapolvere! Ho bisogno del filmettino perché pensi che sono un deficiente- facendo così supponi una deficienza della gente. Eppure, anche se non lo vuoi, sei influenzato da quella cosa. Fatto sta che bisogna difendersi in qualche modo, proprio per riacquistare questo gusto, o quantomeno provarci.
Sempre rimanendo in tema, è un pezzo che si potrebbe mettere in correlazione con “Bar 90”: vai dall’universale della città veloce ed efficiente al microcosmo del bar sotto casa tua…
Che è esattamente quello, è perfetto. Una è la versione macro, l’altra è la versione micro. Che tra l’altro come risultato è anche, più o meno, lo stesso. L’unica differenza è lo scoprire che le due frasi chiave di “Bar 90” sono il riferimento a Pasolini e l’amore che è un lusso del popolo…
Osservando il quartiere, ed il bar è l’osservatorio illuminato per eccellenza, come vedere un formicaio, ci vedi il sentimento, la reazione, l’istinto puro, sempre, continuamente, o che ci si azzuffi o che si spari la cazzata da bar. Però è sempre in sintonia, sempre a tempo con sé stesso. Ed il giochino dell’artista privilegiato, che osserva tutto quasi dall’alto non è vero. Perché io mi immaginavo, e mi immagino tutt’ora, un Pasolini che stava dalla mattina fino alle otto alla macchina da scrivere, a leggere libri, a postulare, ad indagare, a fare poesia, a studiare.
Poi, chiusa la macchina da scrivere, esce fuori, e lì va a sperimentare tutto quello che ha pensato o pensato di pensare. Ed, appunto, lo fa sapendo benissimo che quello che si troverà di fronte è l’amore assoluto, che non è detto che sia quello romanzato. E’ l’amore in tutta la sua contraddizione. Che spesso ci è precluso, tra l’altro. Io considero nell’artista una disfunzione, ha un privilegio, ma ha anche un limite, che è quello di essere troppo contaminato: questa cosa non gli permette di essere completamente nudo di fronte alle cose che succedono, ha sempre una riserva. Ed una difesa possibile, la sua scrittura. Contrariamente si va nella giungla.
“Bar 90” è il pezzo che probabilmente mi è piaciuto di più. Chi è che non sa più “sporcarsi le mani col cuore”?
Questa domanda potrebbe mettermi in crisi. Potrei dirti “io”!. Oppure potrei dirti Pasolini, nonstante alle otto andasse nel mondo. Eh, penso che prima di tutto sia l’artista a non sapersi più sporcarsi le mani…
Mettiamo un paio di Rinascimenti a confronto: Benvegnù cantava che “Abbiamo aperto una porta a un Rinascimento falso come le Madonne del ‘500”, per te invece il “rischio” del Rinascimento sta nel Bar 90. In che cosa consiste questo tuo Rinascimento, che mi sembra, per altro, più genuino rispetto a quello che intendeva Paolo, correggimi se sbaglio, forse per il fatto di essere già meno istituzionale…
Sì, quello di Paolo è anche più storico. Beh, chiaramente gioco anche con la parola stessa, però il Rinascimento, per quanto mi riguarda, è proprio la visione del caos. E’ riuscire ad avere una visione d’insieme dentro al caos. E credo che la parola più banale, però alla fine è quella, non c’è molto da dire, è arrivarci in maniere consapevole. E’ un po’ come quel famoso scambio, non ricordo nemmeno di chi sia, “Tu sei pessimista…” “No, sono un ottimista ben informato”. Secondo me riuscire ad essere Rinascimento sta in questo, nel non farsi sopraffare dalla realtà, continuando a rimanere appesi a questa vita. Subendola il meno possibile, con il gusto della consapevolezza. “Consapevolezza” è una chiave per leggere il Rinascimento del “Bar 90”.
Campana, Ferlinghetti e Ginsberg a parte, che sarebbe troppo facile, un poeta che ti stimola particolarmente?
Sarà banale, ma andiamo da Elliot a Leopardi. Un range bello ampio, ecco!
Articolo del
28/12/2020 -
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