Ne è passato di tempo da Keep Yourself Alive, 12 anni per l’esattezza. Possono contare su un parco di 11 album alle spalle, non sono dei ragazzini di primo pelo insomma.
È il 12 di gennaio ma in Brasile fa un caldo assurdo: l’anno è il 1985 a 10 anni dall’assoluto capolavoro di A Night at the Opera che ha vissuto di recente una nuova notorietà grazie ad Hollywood, a Rami Malek e al film Bohemian Rapsody. Freddie è lì su quel palco, senza maglietta e coi pantaloni bianchi attillati, come a volersi offrire completamente al pubblico degli oltre 250.000 individui accorsi a vedere il gruppo al Rock in Rio, soprattutto durante l’ottava canzone: passerà infatti alla storia dei live dei Queen il “duetto” acustico fra il frontman e l’intera platea durante Love of my Life (dal concerto ne verrà fuori anche una VHS…altri tempi). Un successo clamoroso. E dunque il gruppo è sulla cresta dell’onda: tutto va a gonfie vele e i Queen sono definitivamente consacrati come una delle band più richieste dell’intero panorama musicale mondiale (se mai ci fosse stato bisogno di una conferma); un gruppo conosciuto ovunque e comunque nel mondo.
Chiunque ha sentito almeno una volta una canzone dei Queen nella sua vita: basta vedere una finale di una qualsiasi manifestazione sportiva e, al momento della consegna del trofeo, partirà sicuramente We are the Champions quasi come fosse obbligatoriamente, e senza diritto di replica, la colonna sonora delle vittorie. Ma nonostante il clamoroso successo del Rock in Rio, ci fu un’altra performance che è stata universalmente riconosciuta come la loro migliore di sempre. Praticamente l’apice della loro carriera. Facciamo un passo indietro e cambiamo continente. Sul finire del 1984 Bob Geldof si convinse che il mondo della musica poteva dare un aiuto serio e concreto per sensibilizzare l’opinione pubblica verso i problemi che affliggevano la popolazione mondiale. A ottobre, a Londra, la BBC manda in onda un documentario sulla carestia etiope appellandola come “l’inferno sulla terra”: centinaia di migliaia di persone sono ogni giorno messe tra l’incudine ed il martello di una guerra civile che attanaglia il paese da ormai troppo tempo; la drammatica situazione non risparmia certo neanche i bambini, ne muoiono a migliaia ogni giorno.
E Bob è molto sensibile a questa tematica: è assolutamente convinto che lo showbiz possa aiutare questa povera gente. In parole povere, per Natale di quell’anno esce una canzone che è forse il singolo natalizio più venduto ed ascoltato della storia: ”Do They Know It’s Christmas?” scritta dallo stesso Bob Geldof e Midge Ure degli Ultravox e cantata da praticamente tutto il panorama pop musicale di allora: gli Spandau Ballet, Phil Collins, gli Status Quo, gli Wham!...ma non ci sono i Queen. E come si lega quindi una canzone benefica con la band di Freddie Mercury? Non tutti forse conoscono il lato combattivo di Geldof: il Bob attivista è molto persuasivo e non si ferma davanti a nulla.
Dato l’enorme successo riscontrato dal singolo di Natale ’84 non possiamo fermarci adesso: i bambini in Etiopia hanno bisogno di tutto l’aiuto che l’occidente può dare. Sapete come si chiamava la band che ha cantato “Do They Know It’s Christmas?” ? Il gruppo si chiamava “Band Aid”. Il nome è stato tradotto in “gruppo di soccorso”, parafrasando il nome di un marchio americano di cerotti: ma qua stiamo facendo la storia, altro che cerotti. Salta subito alla mente la correlazione tra l’anno successivo al singolo e il nome “Aid”. I tempi non sono esattamente larghi per poter organizzare l’evento più ambizioso della storia ma nell’estate, precisamente il 13 luglio, del 1985 ha luogo il concerto benefico più famoso di sempre.
Tra l’altro vero apri fila di tutta quella serie di eventi, dischi, concerti più o meno famosi a scopo benefico che poi la storia ci ha consegnato (non ultimo il One World Together at Home del pandemico 2020). Il Live Aid lo conosciamo tutti, anche i più giovani che non l’hanno vissuto in prima persona: un evento colossale tenuto in contemporanea in due paesi diversi a 5 ore di fuso orario con praticamente tutto ciò che la musica poteva offrire. Tutti quelli che contano sono divisi tra il Wembley Stadium di Londra (il vecchio Wembley, naturalmente) ed il JFK Stadium di Philadelphia (tranne Phil Collins, che dopo la sua performance di Londra salirà di furia su un Concorde per esibirsi anche in USA), perchè nel 1985 non conta più quanti dischi puoi vendere ma quanti soldi riesci a raccogliere per un evento benefico.
Gli influencer del Live Aid sono tantissimi e hanno portato a sintonizzarsi sull’evento il 95% degli apparecchi televisivi mondiali. Ovviamente ci sono anche i Queen, a Wembley. Anzi, al Live Aid ci sono i Queen e poi tutti gli altri. Tra l’altro all’inizio neanche accettarono l’invito, poi tra i consigli del manager e forse mossi da compassione per il giusto fine, accettarono. Si esibiscono alle 18.40 (ora di Londra) e come tutti ebbero uno spazio di 20 minuti per poter rispettare una rigida tabella di marcia studiata nei minimi dettagli per il “The Global Juebox”.
Lo stato di grazia di Freddie Mercury è indescrivibile. Vi faccio una domanda: lo avete mai sentito stonare? In qualsiasi concerto, registrazione, bootleg, take di prova…mai una nota fuori posto. E su questo c’è poco da discutere dato che è considerata probabilmente la migliore voce maschile della storia della musica. Ma ascoltatevi bene quei 20 minuti, sono qualcosa di follemente bello e perfetto. Primo risultato tra i video di YouTube. Salgono sul palco con la struggente Bohemian Rapsody, cantata insieme al pubblico come Love of my Life a Rio di qualche mese prima, per poi passare a Radio Ga Ga. Ma è al minuto 6:50 del loro live che avviene qualcosa di straordinario: Mercury, forte dello stato di grazia di cui sopra, armato del microfono con asta corta, si lancia in una sorta di dialogo improvvisato coi 72.000 del pubblico che è qualcosa di fantascientifico: grida, canta col pubblico e raggiunge note di ottave non meglio precisate con una facilità disarmante, da ascoltare all’infinito fino al minuto 7:32.
Risvegliati da questa sorta di trance, ripartono con il ritmo elettrico di Hammer to Fall (dall’album The Works del 1984, l’album di I Want to Break Free) per poi passare alle divertenti e danzerecce note di Crazy Little Thing Called Love. Che fra i Queen e il pubblico ci sia un rapporto speciale è appurato, e non parlo solo del live Aid. Concludono la performance con le due punte di diamante della loro discografia: sentite come canta la platea sulla piccola parte di We Will Rock You e sulla già citata We Are the Champions. 20 minuti che probabilmente valgono quanto un’intera carriera di 15 album in studio e non so quanti altri tra raccolte, album dal vivo, cassette e dvd. Ho parlato di Freddie Mercury certo, ma vogliamo parlare del resto del gruppo?
Sir Bryan May alla chitarra è preciso e incisivo, John Deacon al basso è virtuoso e presente (non facile per un bassista) e Roger Taylor è praticamente un metronomo dietro il grande kit batteria (oltre che ad un gran corista). I concerti di entrambe le città si concludono con la Band Aid ed il loro singolo natalizio a Wembley in contemporanea ai cugini a stelle e strisce di USA for Africa, capitanati da Michael Jackson, con “We Are The World” dal JFK Stadium. Il destino di Wembley e dei Queen è indissolubilmente legato a quella data, a quel 13 luglio, anche se il gruppo ci tornerà di nuovo in concerto l’anno dopo (naturalmente, in vinile e doppio cd nel ’92 ed anche in dvd dal 2003).
Una performance leggendaria, riconosciuta anche dagli addetti ai lavori come una delle più grandi di sempre. Sinceramente non avrei voluto essere nei panni del “povero” David Bowie, salito sul palco per i successivi 20 minuti: impensabile cercare di avvicinare una performance del genere, impossibile tentare di emularla.
Articolo del
04/01/2021 -
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