Intorno al 1489, il criminale-poeta Francois Villon si trova in carcere, arrivato al capolinea di una vita disordinata, frenetica, trascorsa tra risse, omicidi e reati di vario genere che hanno portato ad essere condannato a morte per impiccagione, a far fluttuare il suo corpo nel vento dopo aver esalato il suo ultimo respiro.
Fortunatamente questo anti eroe leggendario e misterioso riuscirà a salvarsi attraverso l'esilio trascorso da Parigi che gli permetterà poi di scomparire, disperdendosi nel nulla; nonostante ciò, la terribile morte programmata attende invece i suoi compagni che troveranno la loro fine in un nodo attorno al collo. Durante questa angosciante attesa della sua fine che però non arriverà (non ancora), Villon compone una delle sue opere più famose, 'Ballade des pendus', la 'Ballata degli impiccati'; è una accorata preghiera che un condannato a morte rivolge ai vivi, un forte invito ad avere pietà nei confronti di chi in vita ha peccato ed è stato costretto a scontare la punizione più orrenda e inutile malvagiamente partorita dall'uomo stesso: la pena di morte.
Nella sua invocazione Villon chiede ai vivi di non deridere gli impiccati, di non disprezzarli, ma anzi di pregare Dio affinché sia concesso loro il perdono divino, non avendo potuto ricevere quello terreno. Così facendo, anche i vivi potranno ottenere la redenzione dei loro peccati, poiché tutti gli uomini, anche se non condannati sulla terra, lo saranno nei cieli per le cattiverie commesse scrutate dagli occhi di Dio. L'uomo per sua natura è incline al peccato, ma può purificarsi mediante la carità e la compassione, proprio come invita a fare Villon. Ciò che sorprende particolarmente, però, è la docilità pacata e perfettamente calibrata con cui l'autore affronta l'asprezza di tale tematica, appellandosi ai vivi all'inizio del componimento, chiamandoli con tono benevolo 'Frères humains' ('Fratelli umani') dimostrando di non nutrire alcun rancore nei confronti di un'umanità spietata e perversa, impaziente di sbandierare il messaggio cristiano che recita che solo Dio può scegliere di porre fine alla vita di un uomo, ma osa proporre la morte come valida punizione per i propri fratelli peccatori, similmente umani, soggetti ad un destino identico a quello di chi giudica e punisce.
Beninteso, questa duttile clemenza adoperata da Villon nella sua preghiera non va intesa come una forma di lusinga o adulazione per realizzare una fioca, ultima speranza di potersi salvare dalla sua fine: a scrivere è infatti un uomo ormai morto, rassegnato, non più ribelle come un tempo, perciò la sua ultima volontà espressa da questa ballata è quella di ottenere pietà e perdono dai vivi, e salvezza da Dio, come è ribadito nell'ultimo verso in chiusura di ogni strofa che si ripete in maniera martellante e ossessiva 'Mais priez Dieu que tous nous veuille absouldre!' ('Ma dio pregate che assolve tutti noi!').
Inoltre, per descrivere in maniera ancora più spinta ed incalzante la propria condizione e tutta la brutalità che si cela dietro a questa pratica inumana, Villon accompagna la sua supplica con una macabra e cruda descrizione dei corpi degli impiccati, imputriditi, costretti a ondeggiare con eterno abbandono in un tempo infinito, a seconda dei venti, rovinati dalla pioggia, dal sole e dagli uccelli che imperterriti continuano orrendamente a sfigurare i loro volti.
Circa cinque secoli dopo, a Genova, un altro poeta, Fabrizio De André, componeva la quinta traccia dell'album 'Tutti morimmo a stento': 'La ballata degli impiccati'. Molto probabilmente l'opera di Villon fu per Faber un importante modello: anche il cantautore genovese, infatti, ispirandosi al 'poeta maledetto' descrive con crudi e strazianti particolari la morte degli impiccati, che sopraggiunge in maniera improvvisa, codarda, non lascia loro il tempo di dire le ultime parole, e sono perciò costretti a ingoiare la loro ultima voce, a ciondolare con le gambe al vento, come in una orrenda danza di morte. Ecco gli occhi chiudersi dopo il colpo fatale, 'i contorni si fanno imprecisi', ecco il respiro cessare, qualcuno però fa in tempo a lanciare un ultimo grido al cielo: non è una preghiera a Dio, né tanto meno una richiesta di perdono, come ci si aspetterebbe da uno dei condannati della Ballade des pendus, bensì una bestemmia, l'ultima, urlata al cielo, prima della fine, 'l'antico credo di chi muore senza perdono', conseguenza della presa di coscienza dell'impossibilità di riscattarsi e salvarsi dal proprio peccato.
E se Cristo in croce, nel suo momento estremo, chiedeva al Padre 'Eloi, Eloi, lama sabachthani?', le anime (forse anch'esse salve) degli impiccati deandreiani urlano invettive, lanciano grida strazianti al cielo, bestemmiano contro Dio, immerse in uno scenario simile all'Inferno dantesco in cui 'sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle [...] diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche'. Questi impiccati, al contrario dei pentiti e miti di Villon, sono colmi fino all'orlo di rabbia, di odio, di rancore, tanto da augurare ad altri degli epiloghi di vita terrificanti: chi ha deriso la loro vergognosa fine, morirà anch'egli allo stesso modo, con un cappio al collo; chi ha sepolto i loro corpi, senza mostrare un briciolo di umanità, senza essere minimamente scosso, con la stessa freddezza sarà ricoperto di terra; chi sorrise imbarazzato nel ricordare un impiccato, a breve avrà quel sorriso sfigurato dal tempo.
Perciò, per questi grandi rancori, i condannati fanno ai vivi una promessa: che non finirà lì, che la Ballata degli impiccati finisce, ma ciò che riguarda la loro morte 'è soltanto un discorso sospeso', che avrà modo di continuare di seguito con altre modalità. Anche gli impiccati di De André, però, come quelli di Villon, vogliono affermare prima della loro fine un importante principio di umanità: tutti gli uomini, in quanto tali, sono ugualmente esposti al peccato, all'errore, al male, e in virtù di ciò nessun uomo ha in alcun modo il diritto di giudicare, di condannare, o di decretare la morte di un proprio simile, nessun uomo può in alcun modo ritenersi superiore ad un altro, nessun uomo può in alcun modo sottrarre a Dio la prerogativa del ruolo del giudice, arbitro del bene e del male; è infatti una terribile ingiustizia il fatto che sia la vita il prezzo da pagare, anche per un solo errore compiuto, 'per il male fatto in un'ora'.
Gli impiccati muoiono così di una morte 'senza abbandono', forse perché i corpi restano appesi alla corda, non si lasciano cadere pesantemente ma restano come sospesi, continuando a fluttuare al vento, o forse perché non hanno ricevuto il perdono finale, l'indulgenza capace di riappacificazione un'ultima volta il loro animo, di garantire il loro riposo in pace. Anche per questo, il verso iniziale che recita 'Tutti morimmo a stento' può indicare il momento finale in cui gli impiccati esalano il loro ultimo respiro, morendo quasi a fatica, non immediatamente strozzati dalla corda, ma questa frase si carica anche di un significato allegorico che abbraccia l'intero componimento: la morte non è più quella totale del corpo che pone fine alla vita, ma diventa quella dell'anima, che ammette ancora la vita, ma uccide la mente, perciò è parziale, è solo un passo in più verso la morte finale, come morire a stento.
Anche la musica, allo stesso modo del testo, dipinge un'atmosfera tetra, macabra e asfissiante, che riflette il senso di rabbia manifestato dalle inumane urla degli impiccati. È un malinconico lamento funebre in cui, in linea con lo stile della canzone d'autore del tempo, alla voce è affidato il ruolo centrale della melodia, accompagnata da scarni strumenti: una chitarra che ripete in maniera tormentosa gli stessi arpeggi, una tromba che, accompagnando talvolta la voce, esegue un contrappunto afflitto e dolente, e delle percussioni che scandiscono il tempo riempiendo la melodia. La breve introduzione, antecedente agli arpeggi della chitarra, dà subito un'idea sul proseguimento del brano: qui infatti chitarra e basso collaborano insieme per immergere sin dal primo istante l'ascoltatore in un'aura stretta, soffocante e angosciante, muovendosi rapidamente e con aggregati sonori disturbanti.
L'inconfondibile voce di De André dal timbro scuro e cupo si adatta perfettamente al pezzo, cantando con rabbia nelle strofe, prendendo parte in prima persona al gruppo delle anime degli impiccati, e nei ritornelli intonando un rassegnato lamento ad accompagnare e sostenere la melodia. In chiusura del pezzo, sull'ultimo verso dell'ultima strofa, la melodia si ferma, per pochi attimi, rimane come sospesa, fluttuante in un istante di silenzio che permette poi di riprendere la melodia con maggior enfasi sulla parte finale del testo, che ripete ancora una volta incessantemente sotto forma di ammonimento che tutti, essendo ugualmente peccatori, una volta arrivati al capolinea, verranno giudicati, perciò il dolore della morte violenta per gli impiccati, potrebbe non essere riservato solo a loro, condannati in terra.
Articolo del
14/01/2021 -
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