Galeotto fu un mandoloncello un po’ impolverato che Eugenio Bennato vide nelle vetrine di Via San Sebastiano, conosciuta a Napoli negli anni Sessanta come la strada della musica per i tanti negozi di strumenti.
Accadeva mentre l’Italia stava cambiando col beat, i primi jeans, i capelli lunghi, e i giovani sognavano con i libri di Kerouac un mondo diverso. Per Eugenio Bennato, cantautore, studioso e divulgatore di musica popolare, compositore per il teatro e per il cinema, una laurea in Fisica a dimostrare che dividere le materie umanistiche da quelle scientifiche è un atto arbitrario, comprare l’austero mandoloncello fu una scelta controcorrente: il periodo era a dir poco elettrico e la colonna sonora della società stava transitando dal beat ingenuo al rock dell’impegno.
Con la pandemia in corso è arrivato l’ultimo lavoro di Eugenio Bennato, un concept album, “Qualcuno sulla terra”, (edito da Sponda Sud), un viaggio musicale ispirato alla creazione del mondo, canzoni in perenne equilibrio tra ritmiche complesse, melodie aperte e un “muro di voci”: troviamo, infatti, contralto, soprano, tenore, basso, mezzo soprano e baritono. Il disco si chiude con una suite, “A sud di Mozart”, composto da corale, opera buffa e tarantella. In realtà si tratta dell’ultimo lavoro in proprio perché, per testimoniare questo tempo buio in cui è preclusa la musica dal vivo, assieme al fratello Edoardo che a suo tempo fece esplodere dal Vesuvio il rock unito all’ironia, ha inciso un singolo, “La realtà non può essere questa”. Eugenio Bennato si racconta in un’intervista esclusiva per Extra Music Magazine.
Son passati molti anni da quando fondasti la Nuova Compagnia di canto popolare insieme a Roberto De Simone e a Beppe Barra e poi sarebbero venute le altre formazioni di Musicanova e di Taranta power. Ora pubblichi un disco, “Qualcuno sulla terra” che mescola vari generi. Insomma, fai sempre scelte musicali contro corrente rispetto alla musica dominante? “Forse è il momento giusto per fare un primo bilancio. Se riprendo in mano il libro che scrissi con Carlo D’Angiò, lo sbiadimento dei ricordi mi permette di rileggere quelle pagine nella maniera più obiettiva, direi senza essere coinvolto. E allora ripenso a quel ragazzo che nel 1968 fondava la Nuova compagnia di canto popolare. Fu quello un gesto rivoluzionario e di controtendenza”.
Fu un gesto rivoluzionario perché la musica popolare si contrappone alla cultura dominante? In quegli anni si verificò una sorta di cospirazione sonora che segnò chi aveva quindici anni con la promessa di una vita nuova e chi ne aveva venti con la prospettiva di cambiare il mondo.
“E allora mi chiedo perché nel 1968 mi è venuto in mente di prendere quel mandoloncello, ricordo che lo pagai 63 mila lire. L’avevo visto in una vetrina nella strada dove si susseguivano i negozi con tante chitarre elettriche scintillanti. Voglio dire che pure a me piacevano Bob Dylan e i Beatles”.
E allora qual è il motivo che ti portò a scartare la chitarra elettrica?
“La verità è che già allora noi facevamo quello che devono fare tutti i giovani: andare sulle cose nuove, su percorsi mai battuti. Questa è la forza dell’umanità che si rinnova perché ripetersi vorrebbe dire consumarsi. Noi fondammo la Nuova compagnia di canto popolare rinunciando a risultati immediati che poi potevano essere banalmente anche la conquista delle ragazze che invece erano attratte dai rocchettari dell’epoca”.
Ma le cose che dovevano essere nuove in realtà affondavano nella tradizione e in più vi allontanavate dal mondo beat che vi piaceva…
“Sì, ma è importante fare una scelta alternativa proprio quando conosci la realtà che ti circonda. A quel punto sei consapevole di non fare un passo indietro. Noi, al contrario, volevamo andare avanti e lo abbiamo fatto perché se ci pensi non c’era in musica una frattura tra presente e passato”.
Tu sostieni che la tammurriata sia il rap di oggi?
“Certo quel parlato ritmico sull’accompagnamento di un tamburo è un antesignano del rap. Quando successivamente presi l’iniziativa di fondare Taranta power misi ancora meglio a fuoco il senso delle parole declamate per dare un ritmo: era davvero l’anticipo di quello che sarebbe stato il rap ma attenzione questo riferimento al testo in senso ritmico come se fosse una filastrocca appartiene al mondo popolare”.
Diverso è il caso della taranta, un linguaggio di commistione che, tra l’altro, affonda nell’antropologia per il significato di purificazione e di liberazione che assume in certe zone del Mezzogiorno?
“La taranta si diffuse in tutto il Sud anche con una valenza liberatoria e soprattutto con lo stesso senso ternario. Mi viene in mente un pensiero che formulai quando mi trovavo a New York e mi chiesi: che farebbe l’America se avesse la tarantella? Ovviamente la prima risposta è che l’avrebbe diffusa in tutto il mondo. Poi però pensai che gli americani le avrebbero cambiato il nome”.
E perché mai si dovrebbe cambiare il nome alla tarantella?
“Perché in quel modo viene abbinata alla tarantella di maniera, a quella napoletana che, in realtà, non esiste ed è quindi associata a un’immagine fuorviante. Pensai alla tarantella pugliese che però doveva essere contrassegnata da un termine più deciso. Riflettendo sull’energia che sprigiona quel ritmo, fondai Taranta power, a indicare un movimento tradizionale vissuto però in una chiave contemporanea. Alla fine, lo abbiamo imposto come slogan e il risultato è che questo ha contribuito a diffonderlo nelle nuove generazioni”.
Nel 1984, con Creuza de ma, Fabrizio De André ha aperto la strada alla musica etnica. In che modo ti ha influenzato?
“Vedi, ho parlato della mia passione per Dylan e i Beatles ma Fabrizio De André era un punto di riferimento molto prima che scrivesse Creuza de ma. Quelle sue canzoni, voce e chitarra, quando cantava: “Via del campo c’è una bambina” … con quel modo di porgere la voce erano distante dalla musica di mercato. Ci ispiravamo a lui lo percepivamo come antisistema, aveva una leggerezza tipica del mondo popolare. Io poi qualche anno fa gli ho dedicato una canzone che si chiama Balla la nuova Italia”.
Ti ricordi il verso dedicato a De André?
“Sì, faceva così: degli esclusi dal concorso dell'ignoranza nazionale che si ostinano a cantare le canzoni dissonanti della scuola di Fabrizio, della scuola dei Briganti. E balla balla la nuova Italia in direzione ostinata e contraria, balla a ritmo popolare di chi non ci vuole stare”.
A sua volta Fabrizio amava molto Napoli e la canzone napoletana. Ma come sta cambiando la musica a Napoli?
“Napoli non finirà mai di sorprenderci. Non si ferma, non si crogiola sulle sue glorie e sulle canzoni che l’hanno resa famosa nel mondo da O sole mio a Torna a Surriento. L’esempio chiaro e sorprendente lo abbiamo avuto con Pino Daniele che, pur rimanendo profondamente napoletano, si era inventato un linguaggio nuovo. Pino nasce a Napoli ma va oltre, supera tutta l’olografia che fa pensare alle tipiche celebrazioni. Io mi guardo bene dal dire che nei tempi passati era un’altra cosa o che si stava meglio; vivo il tempo senza nostalgia e dico che da Napoli anche adesso c’è da aspettarsi qualcosa di nuovo, nella musica, nel teatro e nella letteratura”.
Però la situazione generale della musica è cambiata e non in meglio. Tu esci con un concept album ma è merce rara vista la crisi generale dell’industria discografica.
“C’è uno strapotere irritante dell’oligarchia televisiva e delle radio commerciali. Una volta il mezzo di diffusione principale era il disco, oggi a farla da padrone sono i circuiti digitali spesso superficiali ed effimeri. Però il cambiamento delle tecnologie fa parte della storia”.
Resta la musica dal vivo a cui si dovrà tornare al più presto. Tra l’altro il tuo ultimo disco, Qualcuno sulla terra, era inizialmente un progetto teatrale. “Sì, è nato come opera teatrale per il San Carlo, poi nella recente pubblicazione ho voluto riattualizzarlo. Racconta la creazione, il cammino dell’uomo in rapporto al suo ambiente, la forza della ragione”. L’ho realizzato con un sestetto vocale che ho fondato e che si chiama Le Voci del sud. (Il gruppo è formato da Laura Cuomo, Letizia D’Angelo, Francesco Luongo, Edo Cartolano, Daniela Dentato e Angelo Plaitano; nell’ultimo corale si aggiunge la voce unica di Pietra Montecorvino) .
Sette canzoni per descrivere la genesi partendo dall’assunto che è l’amore che muove la luna. Ma tra i brani c’è anche Ballata di una madre: è una sorta di inno alla vita?
“Parlo dell’amore del primo istante che genera luce e bellezza, cioè un valore assoluto che va al di là della ragione. La ballata di una madre ha una traccia precisa: le vite sono tutte da rispettare, quelle passate e quelle future. Negli arrangiamenti della musica che sentiamo passare alla radio sta scomparendo anche la chitarra perché molti ragazzi si autoproducono il disco con un computer. Nella musica commerciale vediamo sparire uno dopo l’altro tutti gli strumenti, tu che sei un esperto di strumenti come la chitarra battente ne sarai indignato?
“Ma no, nei miei concerti, prima del Covid, ero molto contento di avere un pubblico di giovani; la chitarra battente e quella classica sono scelti dalle nuove generazioni. Pensa che quando comprai la prima chitarra battente dovetti recarmi a Bisignano in provincia di Cosenza da un bravissimo liutaio, De Bonis, che costruiva uno di quegli strumenti ogni tre anni. Adesso puoi trovare la chitarra battente nei negozi specializzati perché ci sono centinaia di ragazzi che vogliono studiarlo. Da un lato c’è la globalizzazione ma dall’altro ci sono bambini che ai miei concerti si portano appresso la tammorra e la suonano”.
Che ricordo hai di Carlo D’Angiò?
“Era un grande artista col quale ho condiviso momenti straordinari. Scrivevamo insieme delle cose con un affiatamento irripetibile, come se fossimo stati un’unica entità. Così abbiamo scritto Brigante se more e anche A sud di Mozart”.
È la suite che chiude Qualcuno sulla terra: sono tre movimenti, corale, opera buffa e una tarantella davvero imponente dedicata niente meno che a Mozart. Siamo alla fine de Settecento e a Napoli arriva il più grande compositore del tempo… A sud di Mozart.
“Fu scritta al pianoforte e faceva parte di un lavoro per il teatro di Reggio Emilia che mi aveva chiesto un racconto sulla visita di Mozart a Napoli. All’epoca l’aristocrazia aveva rifiutato il compositore e noi abbiamo immaginato che il popolo al contrario di quanto accadeva a Corte, gli aprisse le braccia e lo portasse a visitare i quartieri spagnoli dove era in corso un’opera buffa”. Benvenuto a Napoli, Mozart. La gente gli dice che gli vuole bene perché “è scombinato” è uno di loro e gli racconta la storia di un uomo, Carminiello, il quale è malato e non vuole più uscire da casa. Sarà una donna a ipotizzare che Carminiello non è malato ma è solo innamorato per cui una medicina deve esistere. Qual è?
“Per guarire Carminiello c’è bisogno di musica. O meglio di una tarantella che parte lenta e poi sale sino a rubargli l’anima”.
È il potere della musica.
Articolo del
03/03/2021 -
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