(foto di Elena Di Vincenzo)
Stefano De Stefano, partenopeo dallo spirito cosmopolita, è il nome che sta dietro il progetto An Early Bird. All’esordio avvenuto nel 2018 con l’album Of Ghosts & Marvels per l’etichetta francese Dead Bees Records, segue un crescendo di ascolti su Spotify e un cospicuo numero di date in tutta Europa.
Nel 2019 esce l’EP In Depths per Ghost Records e del 2020 è il suo secondo album dal titolo Echoes of Unspoken Words. Artista completo, figlio di ascolti del passato e interprete in lingua inglese del nostro presente, Stefano ha collezionato importanti esperienze professionali: dalla condivisione di palchi con grandi nomi internazionali, all’esperienza dell’appartenenza ad un gruppo con il quale condividere un progetto musicale. An Early Bird ex voce dei Pipers considera il periodo in band un elemento fondamentale di crescita umana e professionale.
In attesa del suo terzo disco Diviner prodotto da Stefano Bruno in uscita in estate per l’etichetta tedesca Greywood Records, An Early Bird il 26 febbraio 2021 lancia Fishes In The Ocean, prima release dell’album dalla quale viene fuori la profondità e la sensibilità graffiante di Stefano espressa attraverso uno sposalizio qualitativo di suoni e atmosfere inedite.
“Credo che là fuori la sensazione è simile a quella dei pesci in un oceano, soli in un mare di opportunità. E la scelta da fare è solo una: catturarle o essere catturati noi stessi. ”
Il 26 febbraio scorso lanci Fishes in the Ocean, primo singolo estratto dal terzo disco Diviner in uscita la prossima estate. Nei tuoi brani giochi sempre a ricreare delle atmosfere particolari e Fishes in the Ocean lo ribadisce. Diviner registra un’evoluzione particolare rispetto ai due dischi precedenti? Diciamo che in questo disco che uscirà ho accantonato la paura di poter risultare eccessivamente pop e ho dato spazio a un’idea di accessibilità molto più ampia e, forse, più al passo con i tempi. In questo senso posso dire che sarà un disco molto onesto e che si auto accetta.
Fishes in the Ocean trascina inevitabilmente l’ascoltatore in una dimensione onirica e realistica allo stesso tempo: sonorità nordiche che se da un lato evocano un certo astrattismo, dall’altro permettono di toccare con mano la quotidianità. Brani come il tuo lasciano questa specie di vuoto, ricco di esistenza. Da cosa è nato il bisogno di volerti esprimere attraverso questo genere musicale, per di più così raro in Italia? Penso che il vestito che diamo alle canzoni faccia la grande differenza all’orecchio di chi ascolta: in realtà non ho scelto di proporre un genere musicale che fosse raro o comune nel mio paese. Sono figlio di quello che ascoltavo e con il tempo tutto questo si è evoluto: ho iniziato con una band diversi anni fa e quello che proponevo era essenzialmente british pop. Poi sono arrivati altri ascolti e così ho seguito il flusso dell’ispirazione, sempre in inglese perché è da lì che è nato tutto nel mio ecosistema di esperienze musicali.
La musica è di una delicatezza espressiva impressionante che sposata al testo riesce a creare davvero un set cinematografico di tre minuti e trenta. Dici: “We dive into the emotion like fishes in the ocean”. È possibile riscontrare in questo brano alcune emozioni tratte dalla tua vita privata? Penso che la voglia di sentirsi vivi e sprofondare ogni volta in un mare di emozioni che ci facciano sentire nuovi e “alle prime volte” sia una caratteristica degli esseri umani. E quindi anche mia.
Ti descrivono come un cantautore dai suoni indie folk. In realtà la tua musica si sta arricchendo sempre più di suoni ibridi: atmosfere dreamy ricreate da lievi effetti elettronici e la chitarra onnipresente. Percepisco la ricercatezza di una modernità che al contempo conservi la tradizione folk. Un genere, quest’ultimo, per nulla mainstream nella scena musicale italiana ma che tu rivesti splendidamente. Stai lavorando a questa ricercatezza? Con il nuovo disco che uscirà ho lavorato insieme a Stefano Bruno per proporre qualcosa di emozionale, fresco e competitivo in uno scenario che, almeno per me, non deve essere più solo l’Italia. Mi piacerebbe che le persone non si chiedessero più se è folk, se è pop o se voglio fare folktronica. Diciamo che lavoro costantemente per arrivare a mettere giù delle gran belle canzoni di cui innamorarmi io in primis.
Ti seguo da un po’ e non è difficile dalla musica che fai provare a indovinare quali possano essere state le tue influenze musicali. La scena inglese risulta palpabile. Ti ho già detto che hai qualcosa di Paul McCartney? Sarà il taglio di occhi che converge verso il basso oppure tutti gli anni spesi ad ascoltarlo. In realtà penso che più ami qualcuno musicalmente e più devi provare ad allontanartene per evitare di perderti nell’autoindulgenza artistica. Di sicuro è uno degli artisti che mi ha dato lo stimolo a voler comporre e creare qualcosa di bello.
Che rapporto hai, invece, con i padri del cantautorato italiano? Non ho delle basi solide da questo punto di vista. L’unico che conosco davvero bene, e che adoro, è Battisti. E poi Bennato. Mi piacerebbe approfondirne qualche altro ma sono abbastanza pigro in questo senso. Se dovessi darmi un voto come a scuola sarei sul 5,5/6. Forse rimandato a settembre.
Greywood Records etichetta tedesca per il nuovo disco. Cosa ne pensi delle labels italiane che rappresentano il nuovo indie? Non ti nascondo che alcune di loro le ho cercate in sede di scouting per la release del disco. In generale ho ottenuto dei feedback discreti ma sempre corredati dal dubbio sulla riuscita del progetto perché cantato in inglese. Altre non mi hanno proprio risposto ma me lo aspettavo perché guardando i loro roster sono qualcosa di troppo fuori. Anche dal punto di vista di concezione della musica, se posso permettermi. Guardando le 5 o 6 etichette indie presenti in Italia – quelle che davvero contano e hanno potere contrattuale, penso che ci sia molto investimento sul massimizzare quello che già funziona e pochissima tendenza allo spirito di impresa. Non li giudico male per questo, ragionano ormai come major.
E in generale della scena musicale italiana attuale? Con naturalezza è come se ti fossi discostato dal panorama e hai fatto bene perché il tuo è un progetto di stampo internazionale. Dipende cosa intendi per scena italiana. Quella indie? Esiste ancora? La verità, e Sanremo lo ha dimostrato ampiamente quest’anno, è che siamo davanti a un grande minestrone di livelli artistici, micro scenari, target di pubblico: tutto è stato frullato perché ad essere stata frullata in primis è l’identità, e la tendenza a scegliere, dell’ascoltatore. Quindi faccio fatica a parlarti di una scena precisa. Come in tutti gli scenari, ci sono diversi progetti belli e altri meno. Sicuramente la cosiddetta scena it pop è ormai scaduta in termini di tempo e di qualità.
Prima del progetto An Early Bird eri l’ex voce e leader dei Pipers. Da solista sei stato in tournée praticamente in tutta Europa condividendo i palchi con artisti come Joshua Radin, Jake Bugg, S. Carey, Stu Larsen, Grant-Lee Phillips e Dan Owen, etc etc etc. Cosa ti porti dietro dall’esperienza in band? L’aspetto umano e sociale del tour. Una cosa che si è fatta sentire nei tour solitari in Europa, dove hai più tempo per pensare e per mettere a fuoco chi sei, dove vai e cosa vuoi. E a volte spaventa. In generale credo che tutti dovrebbero fare almeno un’esperienza in band perché ti aiuta ad aprire le orecchie e il tuo modo di pensare.
Perché An Early Bird dopo i Pipers? Suggestiva la scelta del nome. Ha a che fare con la scissione del gruppo? No in realtà cercavo un’immagine poetica per rappresentare qualcosa che inizia di nuovo, come il mattino di un ennesimo giorno che però è diverso. E l’idea di schiudere di nuovo delle ali e provare a muoversi da solo mi ha subito conquistato.
Ti racconto un’emozione che non lascerò mai andare: era il 2017 mi trovavo a Firenze al concerto dei Radiohead, aperto in quell’occasione da James Blake e ad un certo punto ho chiuso gli occhi nonostante mi trovassi in prima fila e Thom Yorke in carne ed ossa, leggero, mi fluttuasse davanti. Poi in casa ho riflettuto sul perché per gran parte del concerto avessi tenuto gli occhi chiusi. La risposta è stata che quella dei Radiohead, per me, è musica talmente intima, emanatrice di emozioni così segrete che prevede l’ascolto in isolamento. Al tempo stesso, sentire cantare una platea intera è stato adrenalinico. Ecco, anche la tua musica è definibile alquanto intimista: quanto è difficile per te riuscire a trasmettere nei live l’emozione che ha dato vita ad un brano. E come vengono accolte le tue date all’estero? Avendo suonato abbastanza in Europa ho imparato molto a intrattenere il pubblico perché in genere gli show suonati duravano circa 80 minuti e quando sei da solo sul palco devo per forza creare un legame con il pubblico altrimenti lo perdi al terzo pezzo. Quindi introduco spesso le canzoni raccontandone l’ispirazione e, in alcuni casi, pezzi della mia vita più o meno romanzati. Questa cosa è sempre molto apprezzata perché vedo negli occhi delle persone che sono realmente lì ad ascoltare quello che ho da condividere con loro. Gli show europei da questo punto di vista sono andati molto bene.
Non riesco ad immaginare i tuoi brani cantati in una lingua diversa dall’inglese. Questa scelta è legata al genere che fai o nasce da una scelta personale? Si dice risulti più facile spogliarsi di un qualcosa se pronunciato in un’altra lingua. È così anche per te? Diciamo che in italiano mi sentirei più nudo e non so mi farebbe stare realmente bene. Ma non ho scelto l’inglese per vigliaccheria quando per un amore naturale verso il mio background di ascolti. Non ho nemmeno scelto a dire il vero perché è stato molto naturale. Ultimamente sto approcciando l’idea di comporre qualche brano in italiano un po’ per senso di sfida e un po’ perché mi piacerebbe dimostrare che ho delle cose da dire anche in questa lingua. In realtà alcuni brani li ho anche scritti e registrati a casa ma la paura di “inquinare” la mia identità è al momento abbastanza forte quindi non so se alla fine pubblicherò qualcosa.
E c’è tra i progetti futuri quello di cantare in italiano? Se sì, saresti tentato dalla vetrina sanremese? Se dovessi mai pubblicare qualcosa in italiano non è certo per una vetrina sanremese o altro: sarebbe più una scelta dettata dal voler fare ascoltare un altro lato di me a un pubblico che magari prima non mi avrebbe mai intercettato.
Facciamo un passo indietro! Lo scorso ottobre 2020 esce il tuo secondo disco Echoes Of Unspoken Words. Purtroppo la pandemia ha reso praticamente impossibile un tour del disco. Tuttavia questo non ti ferma, ti spinge addirittura a farne un altro. Come gestirai i live tra i due dischi, quando finalmente si potrà? Farai una roba unica o ciascuno merita la giusta attenzione? Dovendo raccontare 3 dischi sarà un concerto più o meno equamente distribuito: mi piace l’idea di far vivere all’ascoltatore il viaggio che ho intrapreso dal 2017 ad oggi.
Diviner registra qualcosa in qualche modo della situazione apocalittica che stiamo vivendo esattamente da un anno? Al suo interno l’album ha delle canzoni molto vecchie e altre molto recenti ma nessuna di quelle scritte nel 2020 affronta questo tema. Ma leggendo il testo di Fishes In The Ocean per esempio può trovarci, rileggendolo in quest’ottica, dei ganci. Ma il disco che uscirà non parlerà di come la pandemia ci ha peggiorato o migliorato dal punto di vista personale.
Articolo del
15/03/2021 -
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