Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, the Best Things in Life are Free, è il nuovo disco della band Battaglia Sandards Quartet uscito il 4 ottobre 2021. Un progetto che rende omaggio ad alcune figure chiave come Ornette Coleman e Paul Motian, che hanno aperto la strada al Free Jazz. Ecco il racconto di Stefano Battaglia per Extra! Music Magazine Stefano per cominciare l’intervista parliamo della nascita di questo progetto: ci vuoi raccontare innanzitutto perché hai deciso di dar vita a un disco che rende omaggio alle grandi figure del free jazz? Salve a tutti, la registrazione di questo album è stata inaspettata, o perlomeno non programmata tempo addietro. L’idea è nata in un periodo particolare, in tempo di pandemia, in un tempo in cui molti di noi erano chiusi in casa, e mi sono domandato “qual musica migliore per offrire una via di uscita a tutto ciò, se non il free, che è il tipo di jazz più libero che c’è?”. Ho voluto omaggiare due tra le figure più importanti di questa musica, Ornette Coleman e Paul Motian, provando a dar forma ad alcune delle loro composizioni, scegliendo quelle a cui ero in un certo modo legato, e che, a mio avviso, contenessero un messaggio positivo, di gioia, di bontà, in un tempo in cui era veramente necessario vedere cose belle attorno a noi
Un disco che senza dubbio rappresenta un omaggio ad alcune figure chiave ma anche ad un immaginario musicale e culturale come quello del free jazz: in sintesi cosa ti affascina di questo mondo? Di questo mondo mi affascina la potenza della melodia che, come in nessun altro tipo di musica, la fa da padrona. Melodia pura che vira su sé stessa, cambia, senza vincoli armonici. E ovviamente lo fa con libertà: c’è libertà da parte del solista che sceglie dove andare, per cui possiamo parlare di massima espressione, e c’è libertà da parte di chi accompagna che sceglie in che modo seguire il solista, se tenerlo per mano nel suo viaggio o se preparagli nuovi spiragli, nuovi mondi, o a volte nuove insidie da esplorare, da affrontare. In ogni caso la risultante è una composizione collettiva e la cosa che mi affascina di più è il fatto che in questo tipo di musica, più che mai, c’è bisogno di stare nel presente, senza troppi preconcetti, ascoltando veramente gli altri, che cosa hanno da dire, affidandosi e dipendendo gli uni dagli altri dal primo all’ultimo istante di suono
C’è inoltre una ragione particolare che ti ha spinto ad affrontare questa avventura? Forse una sfida? Più che una sfida, penso sia stata un’esigenza, l’esigenza di fare musica, in un certo modo senza vincoli, lasciando uscire fuori, con meno filtri possibili, quelle che sono state in quel periodo le nostre sensazioni, reazioni e visioni in relazione a ciò che ci stava accadendo attorno, in un periodo nel quale fare musica non era così scontato o all’ordine del giorno
Se parliamo di artisti come Ornette Coleman e altri legati al mondo del free jazz, cosa ci hanno lasciato secondo te come retaggio musicale e culturale? Ornette Coleman a mio avviso è stato un visionario, ha contribuito a cambiare la storia della musica, ha dato sommo valore alla melodia ed ha aperto le strade a molte avanguardie che sono venute a crearsi negli anni, come pure ha cambiato un po’ le menti ed il modo di fare musica dei suoi contemporanei e dei musicisti a venire, arrivando fino al giorno d’oggi. Se trascriviamo Ornette, non possiamo non notare la sua accuratezza nelle frasi, nelle direzioni delle frasi, la chiarezza nelle modulazioni che compie quando improvvisa, la forza delle sue composizioni. A mio avviso, il suo concetto è molto forte ed è notevole la legacy che si e andata a creare in seguito al suo impatto: mi viene da pensare agli ultimi John Coltrane o addirittura Wayne Shorter, come pure Eric Dolphy, Cecil Taylor, The Art Ensemble of Chicago, Don Cherry, Sun Ra, Paul Motian, William Parker, Albert Ayler, Henry Grimes, Andrew Cyrille, Rashied Ali, Ed Blackwell, Anthony Braxton, George Garzone, Joe Lovano, Karl Berger, Tony Malaby, Francisco Mela, Leo Genovese, Tyshawn Sorey e molti, molti altri
Parliamo anche della tua permanenza negli Stati Uniti: quanto è stata ed è importante per la tua crescita musicale? Direi che è stata, e continua ad essere, importante sia dal punto di vista di crescita musicale, ma anche di crescita personale: confrontarsi con altre culture e trovarsi, se vogliamo, un po’ soli, senza quelle comodità che possono essere la vicinanza alla famiglia, al lavoro o alle amicizie di sempre, fa sì che si esca un po' dalla propria comfort zone e può capitare di conoscere o coltivare lati di sé che altrimenti sarebbero rimasti più silenti o addirittura sconosciuti. E se avviene un cambiamento a livello personale, a livello di esperienze, poi anche la musica, inevitabilmente, credo ne risenta. Inoltre, è indubbiamente di grande valore respirare per un po’ l’aria che ha dato le radici a questa musica, vedere come vivono il jazz quelli che sono i maestri che ammiravo da ragazzo, ascoltare storie e aneddoti di chi ha conosciuto personalmente grandi figure del passato, confrontarsi ogni giorno con musicisti che vengono da ogni parte del pianeta, ognuno che cerca di portare la sua visione della musica e, perché no, qualcosa di nuovo. Tutto ciò è di grande ispirazione.
Raccontaci quindi come stai vivendo questa esperienza e anche quanto ti ha arricchito… Ho vissuto per tre anni a Boston, dove ho avuto la fortuna di frequentare il Berklee College of Music e di poter ascoltare ogni lunedì sera i The Fringe, il trio storico di George Garzone con John Lockwood ed il compianto Bob Gullotti, che ha ospitato talvolta Dave Liebman, Joe Lovano, Kenny Werner, Jeff Tain Watts, John Patitucci, Francisco Mela: ogni volta un’esperienza incredibile, uno showcase del free jazz. In seguito, ho vissuto per quasi un anno a New York, a Brooklyn precisamente, anno durante il quale siamo stati tutti sorpresi dalla pandemia che ci ha tenuti chiusi in casa. Ora, dopo un anno di permanenza in Italia, sono tornato a Boston dove sto frequentando un master in music performance al Berklee Global Jazz Institute di Danilo Pérez. Mi ripeto ma, senza dubbio, poter conoscere da vicino la visione della vita e della musica di grandi maestri del jazz è qualcosa di prezioso. Come pure potersi confrontare con l’ambiente musicale locale, poter scambiare note e parole, lasciarsi ispirare ogni giorno, è qualcosa che penso non abbia prezzo Come si vive la musica negli Stati Uniti? E soprattutto quali sono le differenze con l’Italia? Penso che il jazz, negli anni, si sia diramato dagli Stati Uniti ed abbia raggiunto tutto il pianeta. Grazie al diffondersi di internet, all’accesso alla musica, e anche grazie all'aumento dell’istruzione jazz nelle scuole, ormai troviamo eccellenze in tutto il mondo, come pure interessanti ambienti musicali. In ogni caso, il jazz è improvvisazione, espressione di un pensiero e, pertanto, rispecchia anche il tipo di società, il pensiero culturale che ci circonda, e, cambiando zona, il jazz inevitabilmente cambia. C’è differenza tra il jazz statunitense della West coast e quello della East coast, come pure tra il jazz che troviamo a Roma con quello di Parigi o di Stoccolma. Riguardo la musica, o l’arte in generale, quello che posso dire è che nel nostro Paese, in alcuni casi, è come se ci fosse del timore nell’”essere belli”, nel mostrarsi vulnerabili, nel credere profondamente nelle proprie idee, e forse il problema è che non c’è un vero sistema di valorizzazione dell’arte, a livello di società. Nel jazz la valorizzazione è un po’ legata alla valorizzazione e all’esaltazione del musicista singolo, in quanto improvvisatore solista, e per lavorare si va in cerca dell’autenticazione personale, del ‘suonare bene’; negli Stati Uniti ho notato invece un maggior senso di comunità, di collettività tra musicisti dove ognuno svolge il suo ruolo nella musica, in modo davvero più semplice, complementare agli altri, e si cerca sempre di valorizzare chi prova a dire qualcosa di nuovo. Noi guardiamo più al risultato finale, mentre oltreoceano la mia impressione è che venga più premiato anche solo il tentativo di fare, di dire qualcosa. In ogni caso, osservando le nuove generazioni, mi sento di dire che l’aria sta cambiando.
Prima di lasciarci: avremo modo di vedere questo progetto anche in Italia? Vuoi darci qualche coordinata? Stiamo provando a portare il progetto in tour in Italia per l’estate, forse con una formazione allargata, per il momento non faccio troppe anticipazioni, ci vediamo in estate!
Articolo del
07/02/2022 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|