Foto di Guglielmo Barranco
Salve Max e benvenuto su Extra! Music Magazine. E’ sempre un piacere ospitare artisti che cercano di far sentire la propria voce in un contesto artistico che tende a soffocare e a non dare risalto a progetti artistici come il tuo.
Per iniziare volevo ripercorrere e conoscere un po' più da vicino attraverso quelli che sono i tuoi ricordi, le tue emozioni, e perché no, anche i vicoli ciechi, di quello che è stato il tuo cammino, ancor prima che come artista, come semplice essere umano.
Ho sempre studiato musica da quando sono piccolo, iniziando dal violino all’età di sei anni sino ad arrivare ai dodici quando sono passato alla viola. Questo per quanto riguarda i miei studi “classici” durante l’infanzia e l’adolescenza. Ad un certo punto poi ho capito che mi sarebbe piaciuto anche cantare. Da piccolo avevo una stupenda voce bianca, ero un soprano, ora le cose sono un po' cambiate come puoi sentire…
Hai una bellissima voce anche adesso, io ne sono rimasto piacevolmente colpito.
Ti ringrazio. Dopo il periodo un po' “traumatico” del cambiamento che subisce la voce in quel momento di crescita ho cominciato a prendere lezioni, verso i 15-16 anni, di tecnica vocale. Ho poi fatto un po' di canto lirico, di canto moderno, ma anche una scuola di musical essendo molto appassionato nei riguardi di quel mondo che univa il canto al ballo e alla recitazione. Nel frattempo ho scoperto il jazz, divenuto in breve tempo il mio grande amore. Ho capito che avrei avuto, a livello creativo, una libertà che nessun altro genere mi avrebbe dato. Ciò che mi stava stretto nel musical, e in misura ancora maggiore nella musica classica, era proprio il dover cantare solamente ciò che era stato scritto da altri senza aver modo di ritoccarlo, di cambiare la tonalità o alcuni particolari dell’arrangiamento. E questa parte, di adattare il pezzo e farlo tuo, non solo con l’interpretazione ma anche a livello musicale, è stata da sempre molto importante per me.
Possiamo dire che il jazz ti ha “liberato” dalle maglie strette dell’omologazione.
Si, il jazz mi ha dato la libertà di poter dare “vita” alle mie idee donandomi le chiavi d’accesso ad un nuovo mondo. Non è solo per il modo di fare musica ma è l’intero repertorio di genere che adoro, a partire da quello classico come ad esempio il “Il Great American Songbook”. I diversi standard, i differenti periodi, adoro tutto, e più li ascolto maggiore è lo studio che vado a dedicarci. Quindi, per tornare sui binari di questo viaggio “cronologico” lungo le tappe della mia formazione, dopo la scuola di musical presi la ferma decisione di fare jazz. Ho iniziato a studiare armonia insieme ad un po' di pianoforte complementare, senza dimenticare anche il canto, nella Scuola Civica del Comune di Torino, un po' meno prestigiosa rispetto a quella che c’è a Milano, ma comunque simile, essendo un mini conservatorio.
Gli anni son così passati, e, mentre studiavo lì e lavoravo, mi sono esibito anche in alcuni concerti. Poi è successa una cosa che mi ha cambiato la vita. Mio padre è venuto a mancare quando aveva solo 51 anni e io 27. Quel momento è stato per me una svolta che mi ha fatto domandare: “cosa sto facendo nella vita, è davvero questo quello che desidero fare?”. Un pensiero è nato in risposta a questi quesiti: “oggi ci sei Max, domani chissà, dunque prova almeno a realizzare quelli che sono i tuoi sogni, le tue aspirazioni”. Ho sempre voluto tentare la strada del conservatorio, anche se poi per una serie di vicissitudini non ci sono mai riuscito. In quello stesso periodo ho scoperto che potevo accedere direttamente al biennio, avendo già una laurea in lingue, dunque mi sono adoperato per essere ammesso cominciando così i due anni di formazione in canto jazz a Genova. E’ stata un’esperienza bellissima in quanto Genova era una città a me cara avendoci già vissuto anni prima.
Passavo metà della settimana a Torino, avevo diverse cose in ballo lì che non potevo lasciare, mentre per l’altra metà mi spostavo a Genova. Sono stati quasi tre anni in cui ho fatto continuamente avanti e indietro, ma sono stato molto contento degli incontri sia con i miei compagni di corso che con i docenti, tra cui il pianista Andrea Pozza. In quel biennio abbiamo lavorato molto sulla composizione ed io sino a quel momento mi ero sempre detto “ci sono così tanti bei pezzi, perché scriverne di miei? Cosa potrei aggiungere a quello che è già stato fatto?”. Questo periodo di studio mi ha fatto ricredere anche perché Pozza ci ha spinto, diciamo anche “costretto” in quanto erano insegnamenti per esami che dovevamo dare, a scrivere dei pezzi nostri. Ho così scoperto che in realtà mi piaceva un casino affidarmi a me stesso per la realizzazione dei brani. Le cose che scrivo, siano esse solo un testo, solo musica, o entrambe, sono una “mia” creatura. Magari non sarò Duke Ellington o Cole Porter, ma è tutto farina del mio sacco e racconta la mia vita nel modo in cui voglio narrarla.
La mia tesi ha avuto come fondamenta delle composizioni di mia creazione e il disco “Cities And Lovers” è un po' figlio anche lui di quell’elaborato. La maggior parte dei pezzi scritti per questo album sono nati difatti durante gli anni passati in conservatorio.
Soffermandoci prima con lo sguardo, e poi subito dopo con l’emozione dell’ascolto, sul tuo album d’esordio “Cities And Lovers”, si ha la sensazione di partire per un viaggio immaginario, in cui città lontane si fondono in una danza romantica a frammenti vividissimi di sogni, stagioni, amanti. Come nasce innanzitutto questo titolo e cosa hai voluto rappresentare attraverso l’immagine in copertina?
La mia tesi di laurea si chiamava “City Skylines”, come una serie di cartoline a rappresentare diverse città, poi però quando ho messo insieme la tracklist, prima di andare in studio, mi sono reso conto che c’era anche la componente dell’amore, dei personaggi che vivono in quei centri urbani. Ho realizzato così come quel titolo non fosse più azzeccato e ho optato per il titolo finale e sicuramente più accattivante di “Cities And Lovers”.
E’ un titolo che ha un retrogusto romantico, nostalgico.
Si, sono due cose che mi contraddistinguono abbastanza! (ride ndr) Per quanto riguarda la copertina, tutto è nato da un servizio fatto per un mio amico fotografo che aveva bisogno di alcune foto in cui ero nudo o seminudo. Così mi sono prestato a questo shooting e sono stato molto contento del risultato. Mi è venuta poi l’idea di proiettare su quelle foto delle altre immagini dei vari luoghi raccontati nel disco. Se ne può ricavare un messaggio trasversale, io che mi metto a nudo letteralmente ma anche metaforicamente visto che è il primo disco che realizzo da solista. Tutti i brani sono miei, avendone scritto il testo o comunque gli arrangiamenti.
Chi sono gli altri musicisti coinvolti nella realizzazione e come vi siete conosciuti?
Sono tutti musicisti della scena torinese: Fabio Gorlier al pianoforte, Cesare Mecca alla tromba, Simone Arlorio al clarinetto, Veronica Perego al contrabbasso e Francesco Brancato alla batteria. Li stimo molto per il loro modo di suonare e oltre a essere artisti straordinari sono anche amici con cui collaboro da anni. Soprattutto con Veronica e Cesare il rapporto è molto stretto. Con Veronica in particolare abbiamo vissuto nella stessa casa per più di due anni ed è una colonna portante nella vita e nella musica. Il contrabbasso riveste sempre un po' il ruolo di fondamenta all’accompagnamento nella ritmica e in sostanza ci tenevo davvero molto ad avere questi specifici musicisti nel disco.
Abbiamo registrato il disco a febbraio del 2021 in un momento in cui non c’erano concerti. Eravamo anche in lockdown e l’unica cosa che si poteva fare era andare in studio di registrazione. Nei due giorni in cui vi ci siamo recati è successa una piccola magia. C’era una grande voglia di suonare e ciascuno di loro ha preso davvero a cuore questo progetto lasciandomi sbalordito. Hanno capito esattamente quello che volevo per ogni brano dandogli vita in modo egregio. Avevo già suonato questi pezzi con altri musicisti, a Genova e a Torino, con formazioni differenti composte dalla tromba oppure dal solo piano e contrabbasso. Ma è con Fabio, Cesare, Simone, Veronica e Francesco che ho trovato il suono che volevo davvero ottenere.
Passando invece a quelli che sono i testi del disco ero interessato a capire quanto del tuo vissuto personale l’ascoltatore può leggervi e se ci sono episodi particolari che ne hanno ispirato la scrittura.
Sono un grande appassionato di ballo swing, pertanto vado alle serate, pratico lezioni. E’ sempre stato un momento magico e d’incontro con altre persone, in cui l’amicizia affiancava le storie d’amore “in ballo”. Il primo brano “Tuesday Dancers” è nato così, cercando di trasmettere quello che io provavo andando lì con il batticuore. Mentre mi cambiavo le scarpe pensavo a chi avrei potuto incontrare aspettandomi che tutto sarebbe potuto succedere. Il ballo è un modo per conoscersi e, a volte, il preludio a qualcosa di più.
Il terzo pezzo, “Butterfly and Rain”, è stato scritto nella musica da Veronica, mentre io vi ho aggiunto il mio testo nel tentativo di ritrarre musicalmente quella che è la sua anima, ovvero quella di una persona libera e al contempo forte e fragile. E’ allo stesso tempo un ritratto ma anche una dichiarazione “d’amore” in amicizia. Un altro testo a cui sono molto legato è quello di “Città sospese” dove la parte musicale è un tango e io volevo ambientarlo a Parigi e scrivere un testo, ispirato all’ultima scena del film di Bertolucci “Ultimo Tango a Parigi”. Avevo anche scritto una prima stesura, ma non mi convinceva del tutto. Poi parlando con un mio amico, era il periodo in cui facevo avanti e indietro fra Torino e Genova, pensavo al curioso scorrere di questa mia “doppia vita”.
Entrambe queste città le conoscevo benissimo, vi avevo tutta una serie di abitudini, e di sovente pensavo “ma dove sono di preciso?”. Questo rimbalzo tra una località all’altra era un po' come un film, messo in pausa ogni volta che avveniva questo scambio e di nuovo mandato in play al ritorno. Il mio amico mi disse “bello questo concetto, dovresti scriverci un brano”. Quindi ho ripreso il testo dedicato al film di Bertolucci e rimaneggiandolo ho scritto quello di “Città Sospese”, cercando di trovare le immagini giuste per esprimere quella sensazione lì di “sospensione” tra due città.
Come sei entrato in contatto con la Emme Record Label, quale il tuo pensiero a posteriori sul lavoro svolto con loro e dove è stato registrato il disco?
Il disco è stato registrato a Torino in uno studio che conosco e di cui apprezzo l’ottima acustica ed il modo in cui ci si lavora. Loro sono molto appassionati di jazz (lo studio si chiama Riverside), e conoscendoli da anni si è venuto a creare un rapporto di stima, fiducia ed amicizia. All’inizio ci ho pensato un po' su, essendoci qui a Torino diversi studi di registrazione, con cui, per vari motivi, nel corso del tempo mi sono trovato molto bene. Alla fine la scelta è ricaduta sul Riverside per la sua capacità, unica a Torino, di sapere ricreare quella che è l’atmosfera dal vivo di un concerto jazz in un paio di “take”.
Dovendo poi cercare un’etichetta per la pubblicazione, una mia amica, Valentina Nicolotti, che aveva pubblicato da poco sempre per Emme Record Label l’album “Calicantus”, mi ha indirizzato verso di loro. Anche se avevo contattato altre etichette, Enrico Moccia (direttore artistico dell’etichetta) mi ha subito risposto con grande entusiasmo riguardo al disco e al progetto. Mi sono sembrati in gamba, giovani e con tanta voglia di fare, dando un’occhiata al loro catalogo ho visto che c’era molta gente più o meno della mia età e ho pertanto pensato fosse la scelta giusta per me.
Come hai vissuto il periodo del lockdown e quali insegnamenti ne hai tratto?
All’inizio era davvero arrabbiato anche perché era un momento in cui le cose per me cominciavano a muoversi con un bel po' di date in programma. Ero davvero contento perché avevo l’impressione che le cose stessero prendendo forma quando poi ecco che in un attimo tutto è svanito. E così, solo in casa, ho dovuto adattarmi a questo momento trovando poi nello stesso, con il passare del tempo, il giusto pretesto per rimettermi a studiare. Non che avessi mai smesso ma è stato un momento ideale di “approfondimento”. L’idea del disco nasce anche da questo “tempo sospeso” se vuoi.
Tutti i brani presenti nel disco sono stati scritti prima del lockdown, ma in quel periodo ho continuato a scrivere iniziando anche altre collaborazioni che hanno prodotto pezzi più cantautorali e anche “indie-pop”. Questi ultimi non avrei mai pensato di realizzarli se non ci fosse stato questo momento di “stallo”.
Tanti artisti mi hanno raccontato proprio questo, ovvero di come questo stop forzato abbia permesso loro di scavare a fondo dentro sé stessi e fare cose che altrimenti non avrebbero realizzato.
Esatto, alla fine tutto sommato è stato un periodo “produttivo”.
Prossimi traguardi sul tuo percorso?
Mi piacerebbe intanto promuovere il disco, portarlo un po' in giro per l’Italia e anche eventualmente all’estero. Sto anche lavorando a quest’altro disco, di cui ti accennavo prima, che punta più al cantautorato mantenendo comunque quell’influenza jazz che fa parte di me.
Ci sono programmi per portare “Cities And Lovers” dal vivo?
Non appena riceverò le copie del disco cercherò di fare un piccolo tour promozionale, ma è ancora in fase di progettazione perché il momento attuale è ancora un po' “delicato”. Per dirti, a Torino ci sono pochissimi posti che lasciano suonare quindi bisognerà un po' inventarsi le occasioni per presentare l’album. Ho già alcune cose in mente, ma sto cercando di capire prima come va ad evolversi la situazione.
Grazie per il tuo tempo e per le tue parole Max.
Grazie a te Riccardo, a presto!
Articolo del
15/02/2022 -
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