La “canzone col fischio”. E’ talmente famosa in tutto il mondo (tutti l’abbiamo fischiettata più o meno fedelmente almeno una volta nella vita), che persino quanti hanno poca dimestichezza con l’anagrafica del rock sono in grado di identificarla e di darle una collocazione. Ma non tutti sanno che Wind Of Change, la bella power ballad sottofondo imprescindibile della riunificazione delle due Germanie e della fine della Guerra Fredda, che ha segnato un’epoca in cui non era così difficile credere all’utopia di un mondo migliore, se non ha rischiato di decretare la fine degli Scorpions ne ha sicuramente modificato ineluttabilmente il corso. E Martin Popoff, leggenda vivente del giornalismo dedicato alla musica “dura” con all’attivo quasi 8000 recensioni, 41 libri e innumerevoli collaborazioni, ci racconta perché, in una biografia romanzata e vissuta con partecipazione da fan irriducibile, dal titolo ”Scorpions – Uragano Tedesco”. Nonostante l’ottimo livello raggiunto dalla Germania nel settore rock e metal, grazie a gruppi diversissimi tra loro come Accept, Rammstein, Sodom, Helloween, Gamma Ray, Edguy, Haggard, Blind Guardian, Grave Digger, Lacrimosa, e chi più ne ha più ne metta, gli Scorpions restano l’unica band tedesca ad aver veramente portato a compimento un’impressionante operazione di invasione mondiale che non ha risparmiato un angolo del pianeta. Dal Sol Levante alle praterie a stelle strisce, e dalle Piramidi di Giza alle foreste pluviali, passando per il Cremlino, gli Scorpions hanno suonato dappertutto e nelle location più incredibili. Ma l’uragano rock scatenato dai fratelli Schenker, Rudolf e Michael, e dallo straordinario cantante Klaus Meine, partito da Hannover nel 1965 per non fermarsi – a quanto pare – mai più, ha vissuto più di un momento di stasi e di momentaneo declassamento a semplice tempesta. La storia degli Scorpions, che Popoff racconta con dovizia di particolari e avendo cura di sentire tutte le campane, compresi turnisti, produttori e addetti ai lavori, è atipica rispetto a quella della maggior parte delle band loro contemporanee. Salvo gli abbandoni abbastanza precoci di ben due chitarristi di strabiliante talento come Michael Schenker e Uli Jon Roth – il primo per la sua incostanza ed inaffidabilità, il secondo per inconciliabili divergenze sulla direzione musicale da imprimere alla band – gli Scorpions sono riusciti a mantenere una lineup relativamente stabile per circa quindici anni, e proprio nella fase più intensa della loro carriera, quando la maggior parte dei collettivi travolti dal successo finiscono per esplodere; poi sono subentrati i fallimenti artistici, i guai finanziari, e con essi l’allontanamento del bassista storico Francis Bucholz, che fungeva un po’ da amministratore delegato della band; defezione a cui è seguita quella del batterista Herman Rarebell, insoddisfatto dell’ammorbidimento del gruppo proprio a seguito del successo planetario di Wind Of Change. Gli album degli Scorpions nel decennio 1990-2000 sono stati vissuti dai fan – Popoff per primo, come si evince chiaramente dalla sua cronaca nettamente “di parte” – come veri e propri tradimenti e instancabilmente giustificati dal gruppo come ricerca creativa di nuove sonorità. In effetti, i vari membri degli Scorpions intervistati da Popoff non fanno mistero del fatto che l’etichetta “heavy metal” troppo frettolosamente attribuitagli da certa stampa generalista attenta solamente all’aspetto mediatico del fenomeno-Scorpions, gli andasse alquanto stretta. Nulla di nuovo sotto il sole, è la stessa stampa superficiale e dura a morire con cui i movimenti di rottura, tra cui anche la musica rock e metal, ancora oggi non hanno smesso di scontrarsi. E, come da copione, anche gli Scorpions hanno dovuto scendere a compromessi, dare in pasto al moloch-media l’immagine della rock band trasgressiva e sguaiata, donne e glamour come se piovesse, al pari dei colleghi americani Aerosmith e Mötley Crüe; in realtà, come raccontano in queste pagine, non solo sono sempre stati molto più “contenuti”, più “family men” se vogliamo (in particolare il disciplinato e tranquillo Klaus Meine, tormentato dai problemi alle corde vocali), ma hanno sempre mantenuto, nelle mille evoluzioni, spesso esasperanti, del loro sound, una forte identità europea. Un’”europeità” pastosa e tangibile nelle tinte kraut e prog del loro debutto, “Lonesome Crow”, viva, orgogliosa e lucente in album storici come “Love At First Sting”, “Blackout”, e il provocatorio – per l’epoca – “Virgin Killer”. Questa identità è uno dei fattori che hanno permesso agli Scorpions di attraversare mezzo secolo di musica tra varie burrasche, ma senza mai colare a picco. L’altro è, presumibilmente, la miscela vincente tra l’anima rock e caciarona rappresentata per lo più da Rarebell, e quella delicata incarnata da Klaus, autore di glicemiche ballad, colonna sonora di Dio solo sa quante pomiciate sparpagliate in tutto il globo terracqueo (fonti non ufficiali affermano addirittura che in Francia si sia registrato un picco delle nascite relativo all’anno in cui uscì “Still Loving You”, ma l’autenticità della notizia resta da verificare). Popoff racconta tutto con un taglio che non è certo quello del giornalista o del saggista, traspare da ogni parola come abbia vissuto in maniera viscerale le vicende della band, come si sia entusiasmato, disperato o incazzato a seconda delle circostanze, e come abbia col tempo imparato a rivalutare e a filtrare il tutto attraverso una curiosa visione revisionista. Perché, in un certo senso, la storia degli Scorpions riflette quella del cambio di millennio che hanno cavalcato, e di cui in qualche modo (sento di non esagerare se faccio un’affermazione del genere) sono stati un tassello nell’immenso puzzle delle cose. Il sogno, l’utopia è tramontata per lasciare spazio a una macchina da soldi e da successo perfettamente oliata, in grado di mietere sold out ad ogni data e ad ogni nuova uscita discografica. Ma non è una storia triste, tutt’altro; perché, a dispetto di tutto, il rock and roll è ancora lì. “Sting In The Tail”, dato alle stampe nel 2010, era un buon disco di hard rock, lontano anni luce dagli sprofondamenti creativi degli anni 90, e avrebbe ragionevolmente potuto essere l’ultimo album in studio degli Scorpions. E invece, mentre i suddetti sono impegnati – da ormai diversi anni – in quello che avrebbe dovuto essere il tour d’addio, sotto l’albero di Natale abbiamo trovato un comunicato che annunciava che, dal momento che Klaus&Co. a quanto pare non sono ancora riusciti a smaltire la quantità di materiale scritto e mai pubblicato negli anni ’80, è previsto un nuovo album di inediti in uscita a febbraio. Con salomonica e serena rassegnazione, possiamo dire che né noi, né tantomeno Martin Popoff, ci aspettiamo una nuova Rock You Like A Hurricane o un’altra Big City Nights. Però è bello sperare che lo scorpione non abbia ancora perso il pungiglione.
Articolo del
15/01/2015 -
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