È un unicum tra le biografie degli AC/DC, questa di Jesse Fink. Innanzitutto perché non narra per l’ennesima volta la storia della band dalla A alla Z (o alla C?), ma decide di concentrarsi su alcuni episodi della carriera e della vita degli australiani trattati in maniera contraddittoria o lasciati in ombra dalle altre biografie. E poi perché, pur nascendo da un atto d’amore di un fan che ha ritrovato la forza di vivere e di amare prima grazie a una delle canzoni di “Powerage”, “Gimme A Bullet”, e poi all’intero album, non intende essere né acriticamente celebrativa né scandalistica a tutti i costi. La verità, nient’altro che la verità sugli AC/DC si potrebbe sottotitolare “La dinastia Young”. Rta gli aspetti messi in luce dal titolo italiano, migliore di quello originale ( “The Youngs. The Brothers that built AC/DC” ) c’è l’aspetto familistico della band, da vero e proprio clan (non a caso gli Young sono scozzesi emigrati in Australia) che delimita, controlla ed espande il proprio territorio. Ma “dinastia” è un termine che rende meglio l’idea. Già, perché tutto nasce nei tardi anni ’60 in cui gli Easybeats di Stevie Wright, Harry Vanda e George Young scalarono le classifiche internazionali con “Friday On My Mind”. Poco spinta dalla casa discografica, la band non riuscì a ripetersi, nonostante incidesse brani di qualità come “Good Times”, un flop nel 1968, una superhit 19 anni dopo, nella versione di Jimmy Barnes e degli INXS. Fu in quel fine di carriera inglorioso degli Esaybeats che si formò la tipica mentalità “noi contro tutti”, nel senso di “gli Young contro tutti”, che ha contraddistinto le imprese della band. Malcolm e Angus hanno visto nelle vicende di George un segno del mondo nemico che li aspettava fuori dalla famiglia, già caratterizzata da uno spiccato antagonismo dall’origine proletaria e scozzese. Se si aggiunge che, con Harry Vanda, George Young ha avuto sotto la propria egida gli AC/DC fino a “If You Want Blood You've Got It” (1978), si piega facilmente perché essi «si sono lasciati alle spalle una scia di sangue. Lo testimonia il modo con cui gli Young hanno chiuso la porta in faccia a membri del gruppo, produttori, tecnici del suono, manager, e a tutti quelli che li irritavano per qualche motivo: Dave Evans, Mark Evans, Mutt Lange, Phil Rudd (…), Chris Slade, Michael Browning, Ian Jeffery, Peter Mensch, Steve LEber, David Krebs e molti altri, tra cui un piccolo esercito di batteristi e bassisti dimenticati del loro primo periodo in Australia» (p. 44), tra i quali l’italiano Tony Currenti, di cui molto si è parlato di recente sui media nostrani. Scandita da 12 canzoni simbolo, la narrazione di Fink procede per focalizzazioni, concentrandosi particolarmente su “Back in Black” (tre canzoni per tre argomenti), l’album perfetto dell’hard rock tutto e tralasciando quasi del tutto – e giustamente, visto il pesante calo di ispirazione – il periodo successivo, con la sola eccezione di “Thunderstruck” (1990). Se è degna di particolare attenzione la poco chiara vicenda della composizione dei testi di “Back in Black” (almeno quattro di essi potrebbero essere stati scritti, del tutto o in parte, da Bon Scott prima di morire: equilibrata la trattazione del tema), tutto il libro risulta interessante e sorprendente per gli appassionati degli AC/DC. Anche per quelli che non hanno letto nessun’altra biografia della band.
Articolo del
24/08/2015 -
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