Un'altra rassegna di dischi che passa in rassegna l’evoluzione del progressive negli anni d’oro? Sì, ma non è il solito libro, occorre dirlo. L’accoppiata tra Riccardo Storti, uno dei più fini critici rock che abbiamo in Italia, uno dei pochi in grado di analizzare i contenuti musicali con una competenza tecnica non solo impressionistica da un lato, e Fabio Zuffanti dall’altro, musicista militante con oltre 40 dischi all’attivo, genera qualcosa di nuovo, inedito, diverso dall’usuale. Inaspettatamente, è proprio Zuffanti, che dovrebbe essere il vero tecnico, a contribuire con il lato impressionistico e passionale: l’idea del libro nasce da lui, da una serie di dichiarazioni d’amore per i dischi che lo hanno in qualche modo segnato, che sono, come è scritto nella prefazione al volume, “pezzi di vita”. È il primo grosso fattore di originalità: spesso delle band storiche del genere sono presenti dischi che solitamente sono considerati secondari, ma che hanno il pregio di essere stati un imprimatur nel percorso musicale di Zuffanti. Ecco che dei King Crimson si sceglie non “In the Court of the Crimson King”, ma “In the Wake of Poseidon”, secondo album (1970); dei Pink Floyd non “The Dark Side of the Moon”, ma “Meddle”; dei Jethro Tull non “Thick as a Brick”, ma “A Passion Play”; di Mike Oldfield non “Tubular Bells”, ma il secondo album “Hergest Ridge” (1974), della PFM non “Storia di un minuto”, ma “Photos of Ghosts”; dei New Trolls non “Concerto grosso”, ma “Concerto grosso n. 2” (1976). È qui che interviene Storti, che, altrettanto inaspettatamente, convalida le scelte emozionali di Zuffanti mostrando tutti i pregi intrinseci di album che si rivelano niente affatto marginali, e lo fa scendendo nel dettaglio tecnico, ma trovando la misura miracolosa che gli permette di riuscire ad utilizzare termini strettamente musicali in modo semplice ed accessibile anche al lettore che non sa nulla di musica suonata. Ma almeno, quasi tutti sanno che il 4/4 è il tempo più comune alla musica pop occidentale, utilizzato in modo esclusivo in ambito dance (e il rock’n’roll, ai suoi primordi, era dance): così ognuno è in grado di intuire che un 5/4 o un 17/16 sono tempi inusuali, concettualmente e tecnicamente difficili (nella pratica dell’ascolto possono risultare molto scorrevoli) e che quindi costituiscono già una specificità del progressive. Altre tre impostazioni iniziali rendono particolarmente interessante questo saggio: la scelta di non citare più di un album per gruppo; quella di considerare l’evoluzione del progressive su scala mondiale e non solo inglese, italiana e tedesca, come avviene di solito; quella di considerare il termine progressive nella sua accezione originaria, ovvero di musica in evoluzione, che cerca di espandere i confini della pop song, pur tuttavia seguendo alcune caratteristiche tipiche del genere e cioè, citando un po’ a caso, contaminazione tra musiche diverse, tempi inusuali e complessi, testi immaginifici. Alla fine da queste coordinate risulta un quadro mondiale del progressive 1967-1980 che, se vede fare la parte del leone a Regno Unito (36 album/band) e Italia (28), che distanziano nettissimamente Germania (8), Francia (7) e USA (5), vede anche, negli anni, un deciso spostamento geografico verso lidi insospettabili: ciò permette di scoprire nascoste agli appassionati non hardcore, volgendo lo sguardo a Polonia, Cecoslovacchia, Svizzera, URSS, Giappone, Portogallo, Australia. Un ascolto su Youtube o Spotify farà meravigliare di sicuro. Ne esce fuori un libro davvero particolare, dalle scelte non banali e quasi senza riempitivi: la scelta accorta di suggerire dai cinque agli otto titoli in qualche modo affini per album permette di spaziare ulteriormente, tanto in altre musiche, quanto temporalmente, recuperando pure molti degli album classici delle formazioni più importanti. Acquisto e lettura consigliatissimi, così come l’applauso per gli autori!
Articolo del
11/04/2016 -
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