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Questa sera l’Auditorium Parco della Musica è veramente colmo di persone, dentro, fuori e intorno alla Cavea. L’evento, che fa da ponte musicale per ben quattro generazioni, porta con sé un nome che pesa come piombo. Mark Knopfler ritorna in Italia per il suo Get Lucky Tour. Una speaker ci avvisa che flash e videocamere irritano e distraggono (?) il vecchio Mark, senza voler limitare la nostra libertà (!), ci chiede gentilmente di resistere alla tentazione di usare queste diavolerie elettroniche. Detto fatto, non appena termina l’annuncio, a pochi metri, un uomo sta riprendendo lo stesso incredulo speaker, roba da piegarsi in due dalle risate. Tutto da rifare insomma.
Intanto sono le 21.15, via le luci, appaiono alcune ombre sullo sfondo, una su tutte porta una camicia bianca e jeans. Non è l’entrata che ci si aspetta da una star, ma Mark è stato sempre una persona riservata e dal profilo basso. Decide di fare un ingresso in sordina, nessun divismo, illuminato violentemente dalle luci saluta timidamente il suo pubblico. A pochi metri da lui un’impressionante quantità di strumenti, e amplificazione, riempiono il palco. Otto musicisti impegnati con violini, fisarmoniche, chitarre, hammond, tastiere e batteria. Uno sgabello ci indica la posizione di Mark, rispetto alla band, al centro, non poteva essere altrimenti. intanto la sua chitarra continua a latitare, un roadie gli si avvicina porgendogli uno strumento che solo un cieco non riconoscerebbe. La Fender bianca e rossa splende completando un puzzle perfetto. Il pubblico non ha bisogno neanche d’esser imbeccato, esplode ancor prima che il flauto di Border River faccia da opener. Premetto che Knopfler da solista non mi ha mai detto molto. I suoi dischi, anche quelli con Emmylou Harris, sono abbastanza deboli. La voglia di cambiare, discostandosi molto dalla sua band madre, lo ha portato su altri lidi, con risultati altalenanti. Il suo corpo è invecchiato visibilmente, gli anni pesano, ma mani e ugola, sono rimasti intatto. Come quasi sempre succede, a Roma, qualche problema di acustica flagella il povero chitarrista, a stento riusciamo a sentirne la voce che ritorna limpida e cristallina grazie all’intervento del fonico. L’inizio, in pieno stile country, viene accolto da un rombo, modello Boeing 747, che proviene dalla sala. Una cosa è chiara a tutti: i presenti sono lì per lui, comunque vada, qualunque cosa faccia la partita l’ha già vinta. Il pubblico è tutto dalla sua e glielo fa capire ad ogni nota. Onestamente mi ci vogliono ben sei brani, prima di unirmi al coro, per vedere qualcosa che faccia ricordare chi è stato veramente Mark Knopfler. In questi lunghi minuti d’attesa la band fa i salti mortali per riempire brani che hanno la pecca di un songwriting non sempre all’altezza. Lo stesso Guitarist appare quasi distaccato, asettico. What It Is precede Coyote e Hill Farmer’s Blues e, finalmente, ecco arrivare qualcosa per cui vale la pena di sporgersi in avanti per osservare meglio questo eccezionale chitarrista. L’acustica argentata, affiancata dal piano, introduce la romantica Romeo & Juliet, seguita dall’immarcescibile Sultans Of Swing, con ben tre chitarre in avanti, Quel brano risveglierebbe anche Ramesesse II dal suo secolare sonno. Knopfler, sornione, può permettersi di tirare per le lunghe il suo solo fino all’arrivo finale di quelle note, a cascata e ribattute, che il mondo conosce. Standing ovation dovuta, e sentita, del pubblico già arreso, e vinto, da questo gentleman della chitarra. Ma è solo un attimo, stasera Mark non è qui per suonare vecchi cavalli di battaglia, o per malinconici tuffi nel passato. Lui ora ha un'altra fiamma, quella del folk e ci si tuffa dentro con Done With Bonaparte e Marbletown, unico brano che ha veramente qualcosa da dire, grazie alla coda elettrica carica di passione e voglia di affondare il colpo. Lo stesso Mark abbandona il suo sgabello girandosi verso la sezione ritmica rinvigorita da questa cavalcata. Poi arrivano Speedway At Nazareth e un’inaspettata Telegraph Road, highlight assoluta dello show. Quel modo di pizzicare le corde della Gibson Les Paul ha qualcosa di ancestrale, risveglia gli istinti, fa soffrire e gioire allo stesso tempo. Appare cosi concentrato e con gli occhi puntati sulle corde da sembrare asettico in alcuni passaggi. Si continua a girare sul suo sgabello, in direzione dei protagonisti di ogni pezzo e, pochi minuti prima della parte finale, lancia poche note introduttive di Brothers In Arms. Tentare di tradurre in parole un brano di quella portata sarebbe un delitto. Le urla, le mani che si spellano, e le magiche note possono spiegare cosa rappresenta quel brano per lo stesso Mark, e di conseguenza per tutti noi.
Il rientro sul palco, per gli encore, vola sulle note di So Far Away, accompagnata da una seconda standing ovation, che si muove come un’onda. La chiusura, mentre ho già abbandonato il seggiolino da un po’, è affidata a Piper To The End che, dismessa e pacata, chiude questo concerto.
In alcuni punti, nonostante il calibro tecnico dei musicisti, non ha spinto come ci si attendeva, in altri ha fatto sognare quasi tutti. Intanto mentre il pubblico continua a richiedere a gran voce Tunnel Of Love, Mark si è già avviato verso l’uscita. Stanco delle due ore concesse lascia la Cavea fra un tripudio di flash, applausi e fischi di incoraggiamento.
Articolo del
18/07/2010 -
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