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La sala è piena in ogni ordine di posto: platea e galleria pullulano di un popolo variegato e festante desideroso di offrire un contributo personale al concerto di Alessandro Mannarino, artista venuto fuori - dopo un lungo periodo di anonimato - dalla scena off del teatro romano e che adesso sta diventando rapidamente un nuovo punto di riferimento della canzone d’autore italiana. Ha collaborato con David Riondino, Ascanio Celestini e con il gruppo musicale degli Ardecore, ha cantato i suoi brani dal vivo al Festival jazz di Villa Celimontana ed anche al carcere romano di Regina Coeli ed è stato ospite fisso di Serena Dandini in tv durante il programma Parla con me. Ha partecipato anche alla fase finale del Premio Tenco e si è esibito sul prestigioso palco del Teatro Ariston di Sanremo. L’anno scorso ha pubblicato Bar della Rabbia, il suo primo album, e da quel momento in poi l’eco delle sue canzoni si è diffuso più rapidamente di una malattia contagiosa e adesso accanto a me qui questa sera tutti sanno a memoria le parole delle sue canzoni, e le cantano, a squarciagola, senza remora alcuna, e senza farsi prendere da attacchi di timidezza.
Il successo di Mannarino assume le sembianze di un raggio di luce che arriva ad illuminare un momento davvero critico della nostra vita, sia sotto il profilo sociale che sul piano artistico, ed è ancora maggiore di quanto ci si potesse aspettare. Lui è bravo, ha talento, personalità e carattere, sa bene di cosa parla quando si mette a scrivere canzoni, attinge ad una liricità semplice ma ricca di metafore fantasiose e toccanti, come quella che fa riferimento ad una “città in fondo al mare dove i diamanti non contano niente”, indicata come posto ideale dove la vita ha un sapore diverso, più vero. La sua musica è un mix di varie influenze che vanno dagli stornelli romani (rivisitati e corretti) a Tom Waits, dalla canzone napoletana a Manu Chao, dai passaggi in stile balcanico tanto cari a Goran Bregovic a Domenico Modugno! Questa sera presenta dal vivo i brani tratti dal suo Bar della Rabbia, un ambiente perfettamente ricostruito sul palco, e che assomiglia molto a quello delle borgate romane descritte da Pasolini su Una vita violenta ed Accattone. Mannarino parte dagli ultimi, dagli emarginati, dai diseredati, dà voce alla gente che vive sulle baracche lungo il Tevere, restituisce dignità ai barboni, elogia la vitalità gioiosa del popolo zingaro, descrive con profondità e con delicatezza una figura di clown che ci ricorda molto certi personaggi dei film di Federico Fellini.
Il suo concerto in realtà è una sorta di teatro-canzone, dove Mannarino si propone come un vecchio cantastorie ed è accompagnato sul palco da una eccellente sezione fiati, da due chitarre acustiche e un mandolino, da un percussionista, e da una voce femminile al contro canto e in alcuni momenti di partitura solistica. Le storie che racconta sono tanto belle quanto surreali, ci proiettano in una dimensione onirica, dove i “perdenti” diventano i veri protagonisti della società e dove l’amore trionfa su tutto. Ma il risveglio è anche maledettamente amaro, un nuovo dramma e la possibilità di una tragedia sono sempre dietro l’angolo. E questo si avverte in ogni sua interpretazione. E allora, per tutta risposta, ecco l’ironia sferzante di Me so’ mbriacato, la danza sfrenata di impronta gitana di Tevere Grand Hotel e le riflessioni tristi di Bar della Rabbia, dove “ogni bicchiere è pieno di sabbia”. Al momento dell’esecuzione di Osso di seppia, il nome di battaglia di un barbone che vive al centro di Roma, il pubblico accompagna in coro la sua interpretazione. La storia di questo “non personaggio” viene così come trasfigurata e trasformata in poesia, dove il “non avere” non è peccato, non è una maledizione dell’essere, ma solo un piccolo incidente di percorso, che non impedisce di assaporare la vita. La profonda umanità degli “eroi popolari” disegnati da Mannarino raggiunge il massimo a livello poetico e musicale al momento dell’interpretazione de Il pagliaccio, un uomo obbligato dal suo ruolo ad avere sempre la battuta pronta, una persona che deve sempre ridere nonostante tutto, anche quando si innamora di una “contorsionista” che gli preferisce “la proboscide di un domatore di elefanti”. Lui, il pagliaccio tiene per sé le sue lacrime, perché se toccasse a lui piangere, allora “si allagherebbe tutta Roma / ti porterei in gondola a Piazza Navona”, canta Mannarino in un finale epico, drammatico e commovente. Ma poi è l’Amore che diventa il tema portante della serata, e Mannarino lo racconta con spensieratezza, senza finzioni, senza false illusioni. Canta quello che finisce male, e si piange, come quello che finisce male ma - datemi retta - è meglio così. Il fatto che la possibilità di amare sia alla portata di tutti è la vera bomba da disinnescare in una società fredda, vuota e materialista come quella in cui ci troviamo a vivere. L’amore è la vera paura dei governanti, di chi esercita il potere, di chi ci minaccia. E la risposta di Mandarino non si lascia attendere: la sua esecuzione di Elisir d’amore è davvero bella con tanto di recita finale che prevede la distribuzione agli spettatori di una specie di elisir d’amore fatto in casa (sapeva di sambuca, a dire il vero). C’è anche Napoli nel suo repertorio, brani come Scetate vajò e Cerasa napoletana fanno ballare tutti i presenti, trasformando la Sala di Santa Cecilia in una piazza festante.
Prima di salutare Mannarino esegue canzoni non inserite sul disco, e mi riferisco a brani come Il carcerato, Il ballo dei gamberoni e una straordinaria Fatte bacià, un canto d’amore tenero e disperato, unica e sola risposta possibile di fronte all’avidità di chi ha tutto e vuole di più, unica rivoluzione senza armi, che vuole impedire la corsa senza freni di un mondo impazzito, unico discorso per davvero alla portata di tutti.
Articolo del
07/09/2010 -
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