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Veniamo subito al sodo, gli Arcade Fire ormai fanno spavento. Sanno cosa vogliono, sanno come dirtelo, sanno come suonartelo e tu rimani contro ogni tua capacità psichica oggettiva schiavo del loro suono. Hanno perso un po' di leggerezza e di giocosità, sia per quanto riguarda la dimensione album sia per quanto riguarda quella live (chiedere a chi c'era a Ferrara 2007), ma signori, qui non stiamo più parlando di una band agli esordi, ma di serial killer musicali. Tutte le tracce che sembravano un po' mosce nelle cuffiette dell'Ipod su The Suburbs, sono state trasformate su un palco da otto fisici quantistici canadesi e fatte esplodere con chili di tritolo, chitarre, violini e tamburelli.
La band di Win Butler con questo tour esce dal panorama indie, e con la benedizione di David Bowie parte per la conquista del mondo. L'Arena Parco Nord è ancora vuota al nostro arrivo, infatti Joycut e Chapel Club passano del tutto inosservati: lo sparuto pubblico, piuttosto di stare sotto il palco e all'ultimo sole estivo, preferisce l'ombra dell'area ristoro con della birra in mano o le bancarelle del merchandising.
A dimostrazione del piccolo seguito che si stanno creando, all'apparire degli svedesi trapiantati a Londra Fanfarlo, inizia la prima piccola migrazione di massa al palco. Piccola perché come da previsione alle 18 i biglietti strappati erano poche centinaia. Tanto meglio, meno disturbo della folla e più attenzione al palco. Il piccolo manipolo di cinque suonatori esegue al completo Reservoir, il loro primo album, e la conferma della bontà di quel disco viene quasi da sé: piccoli gioiellini pop di marcata provenienza canadese come I'm A Pilot, The Walls Are Coming Down, Harold T. Wilkins o Finish Line farebbero la fortuna di qualsiasi band già affermata e la sensazione è proprio che ne risentiremo parlare più ampiamente in futuro. La presenza di Butler che fa capolino dal backstage per godersi il concerto accresce lo spessore dei giovani scandinavi, figli di suoni orchestrati, dolci ed educati.
Decidiamo di non muoverci dal posto che avevamo conquistato così facilmente, perché di li a poco, con l'avvento dei Modest Mouse, la calca comincia a diventare quella di un concerto vero. Mai decisione fu più saggia, in un attimo le presenze si quadruplicano, e la conservazione del posto diventa fondamentale. Gli americani vogliono subito partire forte, e quale carta migliore da giocare se non Dashboard? Sarebbe stato il jolly giusto per cambiare il regime dell'evento, ma purtroppo un sound check non adeguato li fa litigare per venti minuti a suon di alza e abbassa col tecnico del suono e l'inizio è alquanto mistificante sia per loro che per chi li ascolta, perché si vedono costretti a buttare via cinque frecce per il loro arco. Ma quando una rock band è una delle migliori in circolazione da dieci anni sa che ci può mettere un attimo a riconquistare tutti. E succede con Satin In A Coffin, Fire It Up, Dremamine, ma soprattutto con la grinta inossidabile e lo stile inconfondibile in cuffia blu da marinaio e camicia di flanella a quadrettoni del frontman Isaac Brock, che per riprendersi il palco sfrutta trucchi da vecchio istrione come nel finale di Spitting Venom, quando usa la chitarra come microfono cantando nelle corde.
Lo show continua e tutta l'attenzione ora è per gli Arcade Fire: il proverbiale e biblico controllo della strumentazione è ancora più maniacale visto quello che è appena successo con i colleghi statunitensi. Dietro, intanto, il palco prende forma: un cartellone pubblicitario tanto suburbano, dei lampioni da periferia, un piano bianco che si presenta sopra ad una scalinata assieme ad una miriade di strumenti. Dopo quasi un'ora il cambio palco è terminato e si aspetta solo il loro ingresso. Ovazione: ora siamo in ottomila, e siamo pronti. Uno due, stesi con Ready To Start e Month Of May, quasi incattivite dalla grinta spiazzante della band nel suo inizio emiliano. Le seguenti Tunnels e il piano di Crown Of Love, rappresentano al meglio il cuore melodico dei canadesi. Ora tocca a Regine, che ha acquistato più sicurezza e coraggio in questi tre anni, cantare Sprawl II, il suo cavallo di battaglia nell'ultimo album, e ci conquista tutti, anche se rimane un po' troppo zuccherata nei modi. In mezzo a The Suburbs, Suburban War e Modern Man appare una delle quattro tracce presentate da Neon Bible, la struggente Intervention che richiama a raccolta le voci a squarciagola di tutti i fan.
Precisi, mai una sbavatura, praticamente inattaccabili sotto ogni aspetto, i canadesi propongono la loro musica chiedendo al pubblico di prendere continuamente parte alla loro esibizione, qui con battiti di mani, li con cori e contro cori, tanto che ogni tanto lascia che sia il pubblico a cantare per lui. Le famose cavalcate di No Cars Go, Haiti e We Used To Wait sono piccoli spettacoli di luci e di immagini che collaborano attivamente nella chimica dello spettacolo. Power Out e Rebellion vengono vissute come se fossero le ultime due canzoni rock della storia: salti, urla, chitarre al massimo e batterie pestanti in una trance emotiva che unisce due delle più belle canzoni della loro discogarfia e tra le più adatte alla dimensione live. Ed è proprio sul coro di quest'ultima che i canadesi ci lasciano. Ma chi era a Ferrara tre anni fa sa che è un loro tocco quello di lasciare per qualche minuto cantare quelle note per poi rientrare e regalarci ancora un paio di canzoni. E succede con niente meno di Keep The Car Running, che manderebbe in pappa il cervello e i piedi di chiunque, e con le magnifiche note di Wake Up, che chiudono un concerto che non avremmo voluto vedere finito mai.
PS.: Un regalo. Se non l'avete ancora visto, scaricatevi Google Chrome e andate su wildernessdowntown.com. Vedrete il primo video musicale interattivo della storia, e di chi, se non degli Arcade Fire?
Articolo del
08/09/2010 -
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