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C’erano una volta, dieci anni fa o poco più, un gruppo di ragazzi californiani. Si facevano chiamare Linkin Park. Avevano un cantante tormentato, sensibile e arrabbiato di nome Chester Bennington, e un obiettivo: rivoluzionare il rock. Obiettivo centrato, clamorosamente e inaspettatamente, al primo album: quel memorabile Hybrid Theory che fece storcere il naso a soloni e puristi di varia estrazione musicale, ma che, piaccia o no, fece la sua piccola parte di storia della musica, dando vita alla creatura nu metal. La rancorosa e appassionata autocommiserazione che Chester riusciva a mettere nei suoi testi fecero centro nel cuore di milioni di adolescenti che si riconobbero in quelle emozioni negative e distruttive. Il rap di Mike Shinoda ad incattivire le canzoni, l’apporto elettronico del DJ Joe Hahn, i videoclip visionari in stile videogioco decretarono l’esplosione dei Linkin Park e sancirono la nascita del nu metal. La band americana aveva unito il sound peculiare di gruppi come i System Of A Down e i Deftones al crossover già proposto dai Rage Against The Machine e dai fratelli Cavalera, e aveva sdoganato queste due tendenze, a loro modo estreme, del metal, rendendole irresistibilmente melodiche.
Questa breve storia non è messa qui a caso: serve a far capire quale novità sconvolgente i Linkin Park abbiano rappresentato ai tempi. E serve a ricordare da dove sono venuti, in modo che sia chiaro che di quei poco più che teenager inquieti e disperati non c’è più nulla. Dopo il disastro Minutes To Midnight – scontato tentativo di album riempi-stadio, dopo l’ubriacatura del successo iniziale – un cambiamento era ampiamente prevedibile; ma, se ha ragione Mike Shinoda a dire che una band che non si discosta dalle proprie origini rischia di diventare noiosa, è altrettanto vero che nessuno, men che meno un rocker, chiederà mai alla propria band preferita di uniformarsi ai desolanti canoni imposti dalla cosiddetta “musica commerciale”. Ricordiamo che i Linkin Park sono nati in un momento in cui i cupi e psichedelici anni ’90 avevano lasciato dietro di sé, specialmente sulla West Coast americana, una desolazione musicale che faceva stringere il cuore. I colossi del rock erano ridotti alle ombre di se stessi. Uno scenario non dissimile da quello prospettato dai Linkin Park in questo nuovo concept album, il cui titolo (A Thousand Suns) è ispirato a una citazione di Oppenheimer, l’inventore della bomba atomica, e che descrive un day after straziante e privo di speranze per l’umanità. Solo che ora le parti sono invertite: i colossi d’argilla di cui poco sopra sono redivivi e più in forma che mai (vedi AC/DC, Metallica, Slipknot e altri, letteralmente miracolati dagli ultimi lavori), e i Linkin Park appaiono inesorabilmente avviati sulla strada della lobotomizzazione musicale. Non che A Thousand Suns non contenga elementi di innovazione: ne contiene fin troppi, sempre che drum machine, elettronica a vagonate, elementi etnici e addirittura reggaeggianti si possano considerare una novità, dato che la contaminazione musicale detta legge dappertutto e in tutti i generi. E, in tutta onestà, se c’era tutto questo fuoco creativo di cui si è parlato in questi mesi, che ci stanno a fare tutti quegli intermezzi che sanno tanto di riempitivi e di carenza di vere idee? Robot Boy e Jornada del muerto faranno la gioia di qualunque MTV-dipendente, avvezzo ai pastrocchi latin-dance. Per non parlare della sicura hit e singolo trainante, The Catalyst: il metal fa il suo ingresso in discoteca, signore e signori. E speriamo che ne esca alla svelta. Si salvano Burning In The Skies e Iridescent, più dichiaratamente vicine al pop e alla melodia, e quindi più oneste, e nonostante tutto funziona ancora il binomio Bennington-Shinoda: quello che molti vedono come un rapporto tra alter ego, con il rapper a dare voce alla parte più rabbiosa e potenzialmente distruttiva del cantante.
Ma è troppo poco. Che delusione, cari LP.
Articolo del
30/09/2010 -
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