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Lo sappiamo tutti, ma giova ripeter(se)lo: le grandi ugole maschili bianche degli anni Sessanta sono state quattro, e tutte britanniche. Certo, i Beatles e gli Stones avevano canzoni migliori, ma quando aprivano bocca Steve Marriott, Van Morrison, Eric Burdon e Stevie Winwood non ce n’era per nessuno. E pensare che Stevie da Birmingham quando ha iniziato aveva solo 16 anni, ma già cantava come un piccolo Ray Charles dagli occhi blu... Tutti e quattro, dopo l’abbandono dei rispettivi gruppi, hanno intrapreso carriere soliste tra il rispettabile (Marriott e Burdon) e lo scintillante (Morrison e Winwood). Van Morrison ha regalato al mondo la meraviglia chiamata Astral Weeks e diversi altri capolavori, ma anche Winwood non se ne è stato con le mani in mano: inutile qui ricordare capisaldi indiscussi e indiscutibili come i primi LP dei Traffic e quello del supergruppo Blind Faith; e non è necessario soffermarsi più di tanto sul suo exploit commerciale degli anni Ottanta con il pop sofisticato degli album solisti Arc Of A Diver e Back In The High Life, che ancora ben ricordiamo tutti (anche i video, purtroppo). Gli anni Novanta di Winwood sono stati impregnati di ozio, ma con il nuovo Millennio il vocalist/multistrumentista ha voluto e saputo tornare sulle scene: due nuovi album, un recente tour in coppia con Eric Clapton e oggi questo giro del mondo in solitario, a promuovere Revolutions, CD nuovo di zecca che compila il meglio di ogni fase della sua carriera dagli anni Sessanta ad oggi. Insomma, quando capita da queste parti è obbligatorio vederlo e omaggiarlo Steve Winwood, un “grande vecchio” che poi anziano non lo è neanche tanto, visto che a 62 anni di età è ancora un pulcino paragonato alla maggioranza dei suoi contemporanei, che ormai viaggiano tutti intorno alla settantina.
La verità (causa i due recenti dischi non proprio trascendentali) è che non mi aspettavo granché, ma non immaginavo neanche che il primo e unico fremito della serata sarei arrivato a provarlo solo dopo 2 ore e 10 minuti di musica, in estrema Zona Cesarini sull’ultimo brano in scaletta, Gimme Some Lovin’ della SDB. Per capire il perché di cotanta delusione, è necessario cancellare dalla mente lo Spencer Davis Group, i Traffic e i Blind Faith e concentrarsi invece sulle ultime scelte artistiche di Steve Winwood, che oggi preferisce farsi accompagnare da un ristretto combo (David Giovannini alla batteria, Tim Cansfield alla chitarra, Satin Singe alle percussioni e Paul Booth al sax, flauto e, quando serve, organo) che fondamentalmente suona – ahi ahi - acid jazz. Lo suona, peraltro, benissimo, con tecnica sopraffina e senza sbavature di alcun tipo, ma alla fine l’effetto è di una stucchevolezza sconcertante. Certo, poi magari il problema è dello scrivente, che non ama l’acid jazz (quantomeno non questa variante priva di anima, in paradossale contrasto con la sempiterna vocalità di Winwood, che invece di soul sembra possederne ancora un’infinità) e non ascolta d’abitudine Radio Dimensione Suono (per fare il nome di una radio che storicamente ha fatto della propagazione di questo suono ultra-slick la sua missione).
Eppure la sala, l’enorme S.Cecilia, è strapiena. Merito di Winwood, senza dubbio, che a suo tempo seminò benissimo in Italia. I suoi Traffic infatti erano uno dei pochissimi gruppi che venivano spesso e volentieri da noi nei primi anni Settanta, sfidando a rischio della pelle le violente contestazioni dei cosiddetti “autoriduttori” e i candelotti lacrimogeni delle forze dell’ordine. Molte teste bianche e/o pelate, quindi, a fare un bagno nella nostalgia dei loro vent’anni. Ma anche diversi giovani, venuti a sentire “The Voice”, ché quella non la si potrà discutere davvero mai, neanche se cantasse accompagnato da un gruppo death-metal. Tanta gente, molti applausi educati (forse troppo) e pochi brani suonati, non più di dodici-tredici nonostante le due ore e passa di concerto. Il punto è che ogni pezzo dura in media una decina di minuti, perché gli assoli si sprecano: d’organo (quello vintage suonato da Winwood, naturalmente), ma anche di sax, di batteria, di percussioni e di chitarra. Il sottoscritto, propugnatore di una musica più basic e minimale, trova siffatto approccio di una noia mortale. E ritiene che sia un delitto, perché dopo una introduttiva non trascendentale Different Light (da About Time del 2003), il brodo della mitica I’m A Man dello Spencer Davis Group (lunghissimo assolo d’organo) è allungato oltre misura, la storica Can’t Find My Way Home (estenuante assolo di sax e percussioni) sembra non finire mai, la recentissima Dirty City (sfibrante assolo di Fender “alla Clapton” dello stesso Winwood) dà l’impressione di durare quanto una facciata di LP e Higher Love... be’, tra l’assolo del batterista e quello del percussionista ho pensato bene di uscire per sapere il risultato di Inter-Juve, quindi sulla durata potrei sbagliarmi.
E’ andata un po’ meglio con il bis: per la gioia del Mr.Fantasy della Tv presente in sala non poteva mancare Dear Mr. Fantasy dei Traffic, in una versione in trio (Booth all’organo, Winwood alla Fender e voce e Giovannini alla batteria): discreta, anche se pure qui Winwood ci ha voluto dare un ennesimo pleonastico esempio di virtuosismo sulla sei corde. Ottima, invece, Gimme Some Lovin’, suonata col gruppo al completo, ma finalmente compatta ed essenziale. Non proprio da tre minuti come il singolo datato 1966 dello Spencer Davis Group, magari sono stati 5 o 6 ma bene così, in qualche modo Gimme Some Lovin’ ha dato un senso ad una serata che fino a quel punto ne aveva molto poco.
Che poi dispiace mancare di rispetto a Steve Winwood, che oltre ad essere un mostro sacro della musica è anche un gentleman come oggi non ne esistono più. Al suo Paese (leggo su Wikipedia) abita in un antico maniero del 1700 e conduce una vita appartata con la sua famiglia nelle campagne del Gloucestershire. La domanda però viene spontanea (parafrasando il buon Mick Jagger): che altro può fare un ricco feudatario inglese se non suonare in una tediosa acid jazz band?
SETLIST:
Different Light I’m A Man Hungry Man Can’t Find My Way Home Dirty City Fly At Times We Do Forget Light Up Or Leave Me Alone The Low Spark Of High Heeled Boys Empty Pages Higher Love
Encore Dear Mr Fantasy Gimme Some Lovin’
Articolo del
05/10/2010 -
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