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Direttamente dal West Midlands arrivano a Roma i Charlatans, uno dei punti cardine di quel pop rock britannico che ha avuto la sua massima espressione negli anni ’90. I primi furono gli Stone Roses, poi ci furono gli Oasis, i Blur, i Verve, i Supergrass, gli Stereophonics, solo per citarne alcuni. Ma c’erano anche loro: The Charlatans. Conosciuti negli U.S.A. come The Charlatans (Uk), qui in Italia erano seguiti solamente dai veri appassionati del genere. Per capirci: un giovane telespettatore medio di Mtv li potrà ricordare a mala pena per un video e potrebbe addirittura confonderli con la band che fu dei fratelli Gallagher.
Ma questa sera a Roma la loro presenza è un evento, anche perché il rischio di non vederli arrivare qui da noi è stato veramente alto qualche mese fa, quando venne diagnosticato un tumore al cervello al batterista Jon Brookes. Un problema, a quanto pare, affrontato e risolto senza alcuna cancellazione dalla tabella di marcia del tour.
Al Circolo degli Artisti si parlava da giorni di sold out, ma l’impressione all’arrivo davanti al locale (e poi durante l’esibizione) non è stata assolutamente quella del classico pienone: molta affluenza, ma senza la tipica ressa da “pubblico eccitato”. Il maestoso pullman della band parcheggiato all’esterno del locale, con tanto di rimorchio per la strumentazione, fa pensare al calibro del gruppo che si appresta a suonare. Sembra strano infatti vederli esibirsi in un locale che è praticamente un club, ma per fortuna così è. Perciò, quando i vari roadies sul palco hanno sistemato il tutto e le belle proiezioni video non attirano più nessuno, si spengono le luci ed entrano i cinque. Timothy Burgess fa il simpatico, sorride e saluta tutti i fan più appassionati delle prime file. Ha un look che si allontana decisamente dai canoni brit: capelli a caschetto con basette lunghe, magari una felpa acetata e attillata dell’Adidas o qualche maglietta di qualche squadra di calcio inglese e invece ecco che Tim si presenta con un taglio di capelli identico a quello di Johnny Ramone e una maglietta di due o più taglie superiore alla sua corporatura, con l’immagine della copertina di Who We Touch, l’ultimo lavoro della band. Quando attaccano a suonare il pubblico comincia a scaldarsi, ma l’impressione è quella di un gruppo che ha già dato quello che poteva dare anni fa. Un bel sound, specialmente per quanto riguarda i pezzi più vecchi come Weirdo, forse il brano che ha fatto ballare di più, ma nonostante ciò, si avverte una certa tranquillità nell’aria. I movimenti quasi ipnotici di Burgess spaziano dalla camminata sul posto alla Ian Curtis ai giochi con il cavo del microfono, mentre canta con la sua magnifica voce. La presenza dell’organo oltre che delle tastiere e lo spazio dato a questi strumenti dal vivo rende molto particolare l’arrangiamento. E così mi godo pezzi come Then, Can Get Out Of Bed e la nuova Smash The System, Tremelo Song e The Only One I Know. Non convincono i brani tratti dall’ultimo album, ma anche dei lavori precedenti dal 2000 in poi, mentre bellissima è This Is The End scelta inizialmente come ultimo brano, alla quale è seguita invece una potente Sproston Green in cui il basso diventa protagonista indiscusso del pezzo. Nessun bis, ma solo una breve lotta per accaparrarsi le scalette da parte del pubblico.
Un bel pezzo di Britpop ha invaso Roma questa sera ed esserci è stata indubbiamente una bella esperienza. Tornando a casa ho pensato: forse è proprio da una band rimasta in ombra (almeno in Italia) piuttosto che da un gruppo “invadente” che si può carpire un po’ lo spirito di quegli anni, il profumo di quelle città (penso a Manchester) o l’animo che avevano quei giovani nel fare musica. Ma potrei anche sbagliarmi.
Articolo del
02/11/2010 -
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