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In occasione della data romana, abbiamo rispolverato i numeri delle tre tigri con Nicola, Giovanna e Diego. Un album all’attivo, un Ep fresco di pubblicazione e un full lenght da presentare sul palco del SXSW di Austin la prossima primavera. A colloquio con i TIGER! SHIT! TIGER! TIGER!
Da Foligno con ardore punk. Anno di nascita ufficiale 2006. Provate a fare un breve resoconto storico sulle tre tigri.
Giovanna: Nasciamo come tre amici che si incontrano sui banchi del liceo, tutti e tre appassionati di un determinato tipo di musica. Nicola, infatti, suonava già da parecchio tempo la batteria con altri gruppi e Diego era un cantautore più o meno affermato dentro la sua cameretta! Ci siamo detti: compriamo una chitarra e un basso e proviamo a fare qualcosa insieme. È stato così che ho iniziato a suonare il basso con loro. Si potrebbe dire che insieme, poi, abbiamo ricominciato tutto daccapo: il suono grezzo che usciva da “Be Yr Own Shit” era quello basilare di chi inizia a suonare con la voglia di farlo ma senza una tecnica particolare da perseguire. E questo è in fondo ciò che ci interessa ancora realizzare. Per noi conta molto l’impatto che riusciamo a tirar fuori suonando insieme, più che un genere musicale specifico da realizzare. Nicola: Sostanzialmente i pezzi di “Be Yr Own Shit” erano zolle di terra prese e tirate contro qualcuno! L’unica persona che ci ha indirizzato verso un’idea diversa è stato Luca Benni… Diego: Luca ci ha fatto fare il nostro primo concerto che è stato probabilmente un disastro! Eravamo in un Circolo Arci, e pensa che sul flyer i Tiger! Shit! Tiger! Tiger! erano segnati come band ‘fantasma’, cioè come dire, Luca non sapeva ancora se poterci considerare reali o meno.
“Be Yr Own Shit”, vostro primo lavoro esce nel 2008. Una dichiarazione d’intenti aggressiva visto anche il nome che vi siete dati come band! Il termine ‘shit’, sembrava essere una costante. Ce l’avevate con qualcuno o c’erano per caso dei riferimenti musicali che finora ci avete taciuto?
Giovanna: si, infatti, ci riferivamo ai Be Your Own Pet… Diego: Diciamo che due anni fa’ quella non era una band che apprezzavamo poi così tanto e quando Nicola per assonanza ha coniato il titolo dell’album, di conseguenza ci siamo detti che poteva andare più che bene. Giovanna: Effettivamente quando Nicola ci ha proposto come titolo “Be Yr Own Shit”, l’idea è piaciuta immediatamente a tutti, non solo perché rispecchiava bene l’attitudine che c’era in noi, ma soprattutto perché condensava perfettamente l’approccio al suono che tuttora ci appartiene come band. E fortunatamente ora possiamo dire che è stato un titolo speso bene anche all’estero.
Parliamo un po’ della vostra musica. Leggevo su Vitaminic una ‘curiosa’ osservazione in cui si diceva che “Whispers” «sta a “Be Yr Own Shit”, come il secondo Disco Drive stava al primo». Parallelismo di un punk-funk a parte, una virata wave più fredda ma soprattutto percussiva a questo secondo lavoro è stata data davvero.
Giovanna: Personalmente non mi trovo molto concorde con l’analogia punk-funk, post-punk ecc. ecc. Forse sarà anche una matrice che nei nostri lavori si sente in sottofondo, ma non credo che al momento faccia parte del nuovo indirizzo che abbiamo intrapreso, né perlomeno abbiamo mai creduto di appartenere a questo genere, nonostante le recensioni ci abbiano molto spesso appioppato questo tipo di etichetta. Forse, in tal senso, il libro di Simon Reynolds (“Post-Punk: 1978-1984”, Isbn, n.d.r. ) ha avuto una certa responsabilità: un testo ovviamente importantissimo, che ho letto e riletto più volte, ma che purtroppo si è trascinato dietro una generazione dedita a generalizzare un po’ troppo. Possiamo fare molto di più in Italia. Diego: Anzi, direi che abbiamo degli ascolti totalmente diversi rispetto ai riferimenti che spesso ci vengono attribuiti. Nicola: Un’altra cosa significativa da dire è che “Be Yr Own Shit” è stato registrato provenendo da una situazione in cui il sottoscritto suonavo su dei barattoli, Giovanna, invece, su un pezzo di legno su cui erano attaccate le corde e la voce di Diego usciva fuori da un amplificatore che era l’altoparlante di una stazione! La sala prove, poi, non aveva finestre né d’estate né d’inverno… Insomma diciamo che sicuramente ”Whispers” nasce da una situazione alquanto diversa e segna un corso in cui indubbiamente abbiamo meditato molto di più sulla direzione del suono cercando anche di cambiare rotta.
Il vostro sound potrebbe considerarsi come una perfetta fusione di musica americana e britannica. Quali sono le band che apprezzate di più al momento o semplicemente quelle a cui sentite di essere maggiormente debitori?
Diego: Sicuramente i Sonic Youth e tra le band attuali apprezziamo molto i Male Bonding. Anche se devo dire che non ho mai ascoltato più di tanto roba inglese. Ricordo, ad esempio, che una volta ci paragonarono ai Cure. Ecco, mai ascoltati, se non in qualche pub di sabato sera. Giovanna: Considera che Diego è stato il fondatore del fan club italiano dei Pavement, nonché l’unico tra i membri del fan club ad essere citato nell’attuale libro in uscita! Come vedi le nostre preferenze ricadono, comunque, sull’indierock, nel vero senso della parola, anche se oggi, purtroppo, l’utilizzo di questo termine sembrerebbe essere, quasi, una cazzata. Diciamo che tutti quei gruppi che tra la fine degli anni ottanta e gli inizi dei novanta hanno cambiato per attitudine, scrittura e organizzazione il sottobosco del rock indie, sono dei nostri punti di riferimento importanti. Nicola: In generale stimiamo ciò che di buono è arrivato dell’hype prima che qualcuno se ne appropriasse in modo indebito.
In quest’ultimi anni avete chiuso moltissime date all’estero, specie negli Stati Uniti. Di recente l’elenco musicale dei nuovi gruppi che provengono da New York continua ad allungarsi sempre di più. Pura esportazione giornalistica o secondo voi c’è dell’altro?
Nicola: Sicuramente le cose più interessanti al momento giungono proprio da lì. Ma come spesso capita per tutti i fenomeni dell’underground portatori di novità, anche quest’ultima ondata di sound oltreoceanico sta per essere traghettata verso qualcosa di conformistico, verso un genere collaudato e probabilmente più fruibile su larga scala. I Beach Fossils, ad esempio, mi piacciono molto, anche se attualmente trovo che il loro approccio si stia totalmente spogliando di quella definizione di underground innovativa di cui ti parlavo. Ma questo, d’altronde, è anche il naturale processo della musica che rende un fenomeno musicale come, ad esempio, quello newyorkese che stiamo vivendo a livello globale, quasi già totalmente esaurito.
Parliamo del full lenght da registrare per la prossima primavera su To Lose La Track. In che direzione si sta sviluppando?
Giovanna: Sicuramente il ritmo che proveniva da ”Be Yr Own Shit” sta evolvendo verso sonorità molto più prossime a quelle di ”Whispers” o ”VV fake” che a quelle degli ultimi due brani dell’Ep (”Vampire” e ”Wheelers”) che, anzi, si meritano spesso, come dicevamo, ‘etichettate’ post-punk o power-pop!
Quali sono le principali differenze che avete notato tra il modo in cui in Italia si vive la dimensione del live e il modo in cui il pubblico ma anche le band a ‘stelle e strisce’ si rapportano a quella stessa dimensione?
Diego: La differenza fondamentale è che in Italia la gente entra in un locale principalmente per bere una birra, poi magari se rimane tempo ascolta il gruppo. Altrove, invece, prima vede e ascolta il gruppo, subito dopo compra l’album e in ultimo, ma solo se gli avanzano soldi, beve la birra! Senza contare che lì alle sette e mezza sono tutti in fila davanti ai locali per ascoltare anche gruppi semi-sconosciuti. Giovanna: Aggiungerei anche che in Italia in molti prendono la birra per poi uscire fuori dal locale, dove ci rientrano magari solo per il djset! Scherzi a parte, credo che all’estero ci sia un grandissimo rispetto per chi suona, oltre che una vera e propria cultura del live che è, invece, totalmente assente in Italia.
Siete la testimonianza di quanto sia importante e lodevole ‘sbattersi’ anche fuori le mura di casa propria. E se a questo punto vi dicessi: Tiger! Shit! Tiger! Tiger! + Les Fauves + A Classic Education, tra i nomi italiani attualmente più gettonati all’estero, cosa rispondereste?
Nicola: Abbiamo suonato con entrambe le band. Ma in America abbiamo, anche, incrociato tanti altri buoni musicisti italiani che vengono presi in seria considerazione come, ad esempio, Banjo Or Freakout o anche Congorock per quanto riguarda la musica elettronica. È difficile definirli come ‘italiani all’estero’. Credo sia molto più naturale, oramai, considerare tutti loro come internazionali.
Parteciperete per la seconda volta consecutiva all’edizione 2011 del SXSW (South By Southwest) di Austin, cosa vi aspettate di ritrovare e/o guadagnare ex-novo?
Nicola: Così come la prima volta che abbiamo messo piede a New York ci è servita, diciamo così’, per sondare un po’ il ‘terreno’, ed è soprattutto valsa a farci conoscere meglio dal pubblico e a chiudere molte più date sul territorio, così ci aspettiamo di poter fare quest’anno anche ad Austin. L’anno scorso al SXSW avevamo tre concerti, quest’anno speriamo di ritornarci in modo più organizzato per quanto riguarda la nostra promozione, e di avere, magari un pubblico che conosce e canta i nostri pezzi come capitò a New York. Giovanna: Amiamo suonare negli States proprio per questo motivo: non ricerchiamo il palco grande, anche perché lì, in fondo, non esiste dal momento che vige una democrazia applicata anche nei festival o per live in generale. Anche i gruppi più grandi suonano in locali piccolissimi e sconosciuti. Il nostro primo sold out, ad esempio, è stato proprio ad Austin dove abbiamo riscontrato una partecipazione di pubblico che non siamo abituati ad avere in Italia. Questo ci lascia un po’ perplessi…
Praticamente state dicendo che vi state per trasferire ad Austin e non ritornerete mai più in Italia?
Giovanna: No! Amiamo certamente suonare sia in Italia che all’estero, però, forse, da loro i concerti sono davvero vissuti e più apprezzati da tutti, o perlomeno se fossi stata lì ci avrei davvero provato a fare solo questo nella vita come professione, proprio perché è ciò che amo fare! Qui da noi non puoi permettertelo. Nicola: Negli States anche un gruppo grande abbina sempre un concerto ufficiale ad un house party: c’è questa mancanza di frontiere tra la situazione ‘importante’ e quella più informale, che, poi, ti consente anche di vivere la musica davvero a 360 gradi. Questa è una cosa molto bella che apprezziamo molto. Diego: Di fatti la prossima volta che andremo, dei ragazzi ci hanno invitato a suonare ad un barbecue insieme ad altri dodici gruppi!
Altre vostre prossime mosse che dobbiamo assolutamente conoscere?
Diego: Sicuramente uscirà il sette pollici e il remix di ”Whispers” di cui stiamo per terminare il video. Subito dopo gireremo quello di ”VV Fake”. Giovanna: Il remix è di FabMayday, un nostro amico dj…internazionale! Dopodiché ci chiuderemo in studio per il full lenght, che chiaramente sarà sulla scia di ”Whispers”.
Articolo del
22/11/2010 -
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