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Dai piccoli club di indie music all’Auditorium, in un arco di tempo decisamente breve, quasi una consacrazione per lui, per Vasco Brondi, giovane musicista di Ferrara, un artista vero, uno scrittore, un poeta urbano che attraverso Le Luci della Centrale Elettrica, una sua creazione, ha conquistato tutti, anche i più scettici. Ha vinto il Premio Tenco come migliore opera prima grazie agli esiti positivi dal suo album d’esordio Canzoni da spiaggia deturpata, un disco del 2008. Adesso è arrivato il momento della pubblicazione del suo atteso secondo album, che si intitola Per ora noi la chiameremo felicità, un disco appena uscito che si ispira ad una citazione tratta da Leo Ferrè, il famoso chansonnier francese.
Vasco Brondi presenta il nuovo disco dal vivo alla Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, e non si trova più un posto libero, un biglietto ancora disponibile. Lo definiscono sold out, in realtà è un tributo delle nuove generazioni che vogliono ricominciare a pensare, a contare qualcosa, che vogliono trasformare la disperazione in momenti di vita, di letteratura, di arte, di rivolta, interiore e non. E’ lui, Vasco Brondi, che forse senza neanche volerlo, si propone come nuovo punto di riferimento, con la sua poetica visionaria e surreale, ben espressa da un libro come Cosa racconteremo di questi cazzo di Anni Zero, uscito per Baldini Castoldi circa un anno fa. Sul palco con lui ritroviamo Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours al violino, Lorenzo Corti, musicista di Cristina Donà, alla chitarra, ed Enrico Gabrielli dei Calibro 35, alla tastiera e ai fiati. Brani del primo disco si mescolano ai nuovi, che lui presenta con una certa timidezza e con una buona dose di ironia : “ecco, questa è una nuova canzone, per modo di dire, perché tanto è uguale a quelle vecchie”. La cosa non è nemmeno sbagliata, perché sul piano delle strutture armoniche i brani del nuovo album somigliano davvero molto al disco precedente. E’ il suo modo di fare musica, un approccio decisamente scarno e lo-fi che parte in maniera sommessa, per chitarra acustica e voce, e che poi acquista drammaticità e dinamismo in un forte crescendo, che sa essere visionario e anche disperato nel suo voler dare voce a chi non ne ha in questa società che va a rotoli, che procede a tutta velocità verso il nulla. Quando Vasco si mette a gridare, non ce ne è per nessuno, le sue urla gareggiano con le distorsioni della chitarra, con le sferzate folle del violino e le sue parole quasi non si capiscono. Non fa niente, si capisce tutto ugualmente, le storie che racconta si fanno spazio da sole partendo da una dimensione acustica che diventa presto rock sperimentale e a tratti free jazz. Vasco parla di giovani senza speranze ficcati in un call center, di ragazzi senza lavoro o pagati a nero, di extracomunitari respinti in mare, di fabbriche che chiudono, di amori svaniti, di licenziamenti, di errori di fabbricazione e di inquinamento, senza sosta, mescolando tutto, rivoltando ogni cosa, filtra i fatti di cronaca attraverso le sue emozioni, dona una dimensione poetica a cose e situazioni inanimate, fredde e distanti. E’ musica minimale, ma solo in apparenza. Il palco è scarno, ma essenziale, con quelle luci di un condominio che ricordano tanti quartieri periferici delle nostre città. Vasco canta di “disperati sogni che si infrangevano contro i soffitti e facevano delle specie di affreschi” su “I nostri corpi celesti; canta la tenerezza di un rapporto d'amore “sempre come un amuleto tengo i tuoi occhi nella tasca interna del giubbotto” da “Quando tornerai dall’estero; ci avverte che i “sogni sono come armi nucleari” su Anidride carbonica; è capace di spiazzare tutti i presenti quando recita “ti avrei portato a nuotare dove affondano le petroliere” oppure “avremo gli occhi lucidi come le Mercedes”, ma è nel finale che vola alta la sua disperazione quando, senza accompagnamento musicale, grida che “la disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità”. E’ la summa della sua poetica, della sua musicalità, del suo approccio esistenziale, di un ragazzo che, malgrado tutto, trova il coraggio di sperare ancora “magari un giorno, da tutti i nostri “no”, verrà fuori qualcosa”.
Seguite con attenzione Vasco Brondi e Le Luci della Centrale Elettrica, potrebbero illuminare un futuro nuovo e forse anche migliore.
Articolo del
03/12/2010 -
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