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L’ultima volta di Laura Veirs a Roma risaliva a sette anni fa ed era andata male, anzi malissimo. Per carità, il concerto non aveva fatto una grinza (anche perché arrivava sull'onda di Carbon Glacier che della folksinger di Portland, Oregon, resta a mio avviso l’album migliore) ma a vederla in quel frangente c’erano appena quattro paganti più il sottoscritto accreditato, davvero una miseria per una delle più interessanti interpreti emergenti del sound americano delle cosiddette “radici”. Ma questi sette anni non sono passati invano per l’occhialuta sempre nerdica Laura: ha firmato un contratto con la prestigiosa etichetta americana Nonesuch, ha realizzato quattro ulteriori album impeccabili, ha messo su casa insieme al suo produttore storico e fidanzato Tucker Martine e la scorsa primavera ha anche dato luce a un figlio a cui è stato affibbiato il nome (alla Totti & Hillary) di Tennessee: in omaggio, si può supporre, alla fonte principe della american music, da cui Laura continua a tutt’oggi ad abbeverarsi. E nel frattempo la fama della Veirs è cresciuta e si è diffusa pure nella stessa natìa America che inizialmente pareva snobbarla, grazie anche alla sua amicizia con il concittadino Colin Meloy e alla collaborazione con i Decemberists, che le hanno conferito un prezioso pass d’ingresso nella giungla dell’indie-rock a stelle e strisce.
Forse anche per questo motivo, stavolta al Circolo c’è tanta gente, anche se al sold-out non ci siamo ancora: il genere Americana a Roma “tira” sempre e comunque poco, a quanto mi viene riferito. Purtroppo perdo, scelleratamente, l’esibizione dei Led To Sea, band di supporto guidata dalla multistrumentista Alex Guy, con alle spalle un disco, In The Darkening Sky, che mi dicono esser niente male. Quando entro in sala, Laura è già sul palco a fare gli ultimi controlli degli strumenti. Poi, nel giro di cinque minuti, la neo-mamma esce e rientra, stavolta in compagnia degli Hall Of Flames, ovvero il chitarrista Tim Young e la stessa Alex Guy, per l’occasione impegnata soprattutto in qualità di violinista. Se sette anni fa all’Init la Veirs era sembrata timidissima, stavolta pare più rilassata – anche, forse, per via del drappello di yankees in platea che le danno man forte – e non perde occasione per interloquire con il pubblico e coinvolgerlo qua e là in vari singalongs. Le canzoni sono soprattutto quelle del recente ineccepibile July Flame: si parte quindi con Carol Kaye, Sun Is King e Where Are You Driving?, intervallate solo da una vecchia conoscenza, la bellissima e glaciale Ether Sings che apriva (appunto) Carbon Glacier. Sono canzoni “tristi”, pare quasi scusarsi Laura, “anzi, introspettive”: è per questo motivo che la folksinger trova necessario imbracciare il banjo e rallegrare la platea con il calypso d’annata Kingston Town, un vecchio hit di Harry Belafonte. C’è ancora spazio per un altro traditional, la ninna nanna All The Pretty Little Horses di cui la Veirs, da brava maestrina quale appare (e, in fondo, è) spiega la reale origine: il lamento di una schiava disperata perché costretta a occuparsi del figlio della padrona piuttosto che del proprio bambino (e io che la conoscevo nella darkissima versione dei Current 93 e di Nick Cave!) Quindi arriva la zompettante Jailhouse Fire dal secondo album di Laura, quel The Triumphs And Travails Of Orphan Mae che nel 2001 ne rivelò al mondo la grazia e il talento; si torna poi alla specialità di Laura: brani tristi, anzi, pardòn, “introspettivi”, a partire da Spelunking, unico della serata tratto da Year Of Meteors del 2005, passando per i recenti Life Is Good Blues (un bell'ossimoro!) e Wide Eyed, Legless, per chiudere con l’estemporaneo ritmo elettronico di July Flame, orecchiabilissima title-track del nuovo disco, su cui la Veirs prova a coinvolgere i presenti in un’improbabile gara canora “internazionale”: manco a dirlo, la risposta del pubblico romano, morto di sonno per definizione, è scadente, ma la faccia viene ugualmente salvata grazie alla solita pattuglia di americani, brilli al punto giusto e sempre pronti a farsi una bella cantata corale. Il bis viene aperto dall’ingegnoso medley di due classici del folk-blues: My Creole Belle nota nella versione di Mississippi John Hurt e Freight Train di Elizabeth Cotten, una delle principali eroine e ispirazioni della Nostra. Mi aspettavo Riptide o almeno Magnetized. Non sono arrivate: peccato. Ma la chiusura è stata ugualmente intensissima, con Through December, dolce e riflessiva ballata ripescata ancora dal vecchio ...Orphan Mae: il vertice della serata, senza alcun dubbio.
E’ stato un concerto forse troppo breve (un’ora scarsa) e un po’ carente in spontaneità, ma la Veirs ha comunque confermato quelle che sono, da una decina di anni a questa parte, le sue armi migliori: una tecnica di fingerpicking impeccabile, canzoni sopra alla media dei folksinger odierni e, soprattutto, la particolare qualità della sua voce, a metà tra quella di una bambina che riesce ancora a stupirsi delle cose del mondo e quella di una maestra di scuola elementare, pronta a rifilarti una bacchettata appena scopre che sei stato disattento. Sette anni dopo, la “fiamma” di Laura Veirs brucia ancora. E qui a Roma, a riscaldarsi al suo calore, per fortuna stavolta siamo stati in tanti.
SETLIST:
Carol Kaye Ether Sings Sun Is King When You Give Your Heart Where Are You Driving? All The Pretty Little Horses Kingston Town Jailhouse Fire Spelunking Life Is Good Blues Wide-Eyed, Legless I Can See Your Tracks Make Something Good July Flame
Encore: My Creole Belle / Freight Train Through December
Articolo del
07/02/2011 -
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