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La carriera di Mark Kozelek ha subito talmente tante evoluzioni che riuscire a definirne gli ultimi passaggi è impresa molto ardua tanto è netta la differenza rispetto agli esordi. Seppur non sia questa la sede migliore per stabilire la polarità di tali divergenze non è difficile condividere l’idea generale che l’uomo abbia tratto maggiori benefici dallo scorrere del tempo, mentre la potenza della sua musica è rimasta forse sommersa in un vortice di bizzarre mutazioni. Trasformazioni che non ne hanno però mutato due aspetti: la forte sincerità dell’artista (non scendeva a patti con nessuno vent’anni fa, figuriamoci oggi) e la sua meravigliosa voce, il Virgilio nell’inferno delle sue liriche e melodie. Se le corde vocali incantano ancora oggi è, di contro, la personalità di Kozelek a rendere il suo concerto nella suggestiva chiesa di Villanova (alle porte di Bologna) un’esperienza simile a quella provata da chi (se mi passate la bizzarra analogia) ha una Ferrari in garage ma non ne possiede le chiavi per metterla in moto.
L’ultimo pallino di Mark Kozelek è il flamenco. Ha ammesso di averne ascoltato tanto prima di registrare l’ultimo album (Admiral Fell Promises, a nome Sun Kil Moon), il risultato è evidente per chiunque l’abbia ascoltato e il songwriter di San Francisco ormai non esce di casa senza una chitarra classica con le corde rigorosamente di nylon. Risultato? Il concerto è l’esecuzione completa dell’ultimo lavoro (per fortuna senza seguire l’ordine della tracklist originale) sonorità andaluse comprese. Interpretazioni perfette, un lavoro mostruoso alla chitarra ed una voce, come già detto, impeccabile. Finendo, però, per risultare presto ripetitivo, anche a causa di alcune nuove composizioni non esattamente eccezionali (solo Alesund, Half Moon Bay e Third & Seneca confermano, in veste live, le loro intense qualità). Ma lui è l’Artista. Le sente sue, le sente attuali e ne sente l’urgenza di presentarle al suo pubblico. Non sa però, anche se incomincia a percepirlo in conclusione di spettacolo (quando viene richiamato sul palco, controvoglia perché “tired”, da cinque minuti di standing ovation), che la sua gente, persone stanche quanto lui magari reduci da chilometri di viaggio per raggiungerlo, probabilmente è la prima volta che può vederlo suonare dal vivo in Italia (complimenti, a proposito, al Covo di Bologna e al parroco della chiesetta settecentesca) e che pretende, a quel punto, di sentire i suoi capolavori, quelle tante canzoni che l’hanno reso uno tra i quattro-cinque più grandi cantautori degli ultimi vent’anni.
Va bene essere fedeli a se stessi, va bene non fare il solito show da greatest hits ma non è una richiesta sacrosanta poter ascoltare da pochi metri di distanza quelle perle capaci di strapparti il cuore dalla commozione? Non basta certo quella meravigliosa Katy Song relegata alla fine del set principale quasi fosse “una delle altre”. Non lo sarà mai. E non bastano Carry Me Ohio e Summer Dress riarrangiate “flamenco style” mentre lui sbadiglia e il pubblico invoca i suoi classici preferiti. Non sarebbe bastato un concerto di due ore per raccoglierle tutte, figuriamoci se ci bastano queste tre piccole porzioni del suo mondo, del suo mito.
Un occasione persa? Chissà. Vederlo, percepirlo, sentirlo pizzicare le corde della chitarra, stringergli la mano alla fine del concerto, farsi firmare il libro con tutti i suoi testi... ripaga e commuove quasi quanto il ricordo dei tanti pomeriggi trascorsi ascoltando quei dischi dalle copertine tristi e arrugginite. Immaginando la sofferenza di un uomo pensieroso di fronte alle montagne russe della sua vita.
Articolo del
09/02/2011 -
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