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Avevo trovato di una infinita tristezza la giurassic-reunion pinkfloydiana post Waters che, da fine anni 80 in poi, aveva imperversato sul nostro pianeta facendo gridare tutti i media all’ennesimo miracolo. In realtà si trattava di una credenza popolare peggio di quella del lupo mannaro con il solo effetto di essere bombardati da una nuova classe di intellettuali di musica, ovvero da tutti quei fans patetici di Nick Kamen e di Madonna che affermavano di amare i Pink Floyd ed, in particolare, Ummagumma. Roba da far venire un’orticaria fulminante!
Forse perché si trattava di Roger Waters (quasi 70 primavere), ovvero dell’erede naturale di “Syd il Diamante Matto”, forse perchè The Wall l’avevo amato così tanto da consumarne i solchi del doppio vinile e forse perché l’evento in questione rappresentava l’ultima chiamata per vederne dal vivo il fenomeno. Tanto è bastato da spingermi ad assistere all’evento. Lo spazio è l’ultramoderno stadio di football del GelreDome di Arnhem con tanto di tetto apribile (Carraro, se proprio non avessi nulla da fare ti consiglio un bel giretto culturale da quelle parti...). I biglietti erano andati in sold out dopo pochi giorni ed, infatti, lo stadio era pieno in ogni ordine di posto. Il concerto inizia intorno alle 20.15. Viene riproposto tutto The Wall dall’inizio alla fine, così come era stato concepito dalla mente paranoica di Waters. The Wall è il primo disco dei Pink Floyd di cui emergeva tutto l’egocentrismo di Roger Waters che, in questo progetto, si ergeva come vero e proprio dittatore. Aiutato dal co-produttore Bob Ezrin, compone i testi e gran parte della musiche tenendo gli altri in disparte acuendo vecchie tensioni e segnando, in questo modo, l’inizio della fine della band inglese. Si parte dall’esperienza autobiografica del bassista per arrivare a rappresentare un concept album incentrato sulla fantomatica figura di Pink: un ragazzino disturbato, orfano di padre (morto nella Seconda Guerra Mondiale), vittima di una scuola disumanizzante e di una madre iperprotettiva, che crescendo diventa una rockstar. I suoi problemi aumentano e, come tanti mattoni, vanno a formare un muro entro cui egli si isola, lontano da tutto e da tutti. Il disco fu eseguito dal vivo nel lontano 1980, solamente per poche date in quanto troppo complesso per essere portato in un tour. Il film di Alan Parker, per questo motivo, ne era stato la rappresentazione visiva.
Questo tour è stata l’occasione per rendere giustizia ad un progetto, per molti versi, senza precedenti. Così bello che potrebbe vivere di vita propria, prescindendo dalla band, per essere rappresentato dal vivo all’infinito. L’integrazione audio – video è pressoché perfetta con il muro che funge da schermo gigante su cui vengono proiettate immagini, messaggi e sequenze animate. La scenografia è essenziale e si rifà per larga parte a quella del tour originale. Non prende mai il sopravvento sulla musica ma, bensì, la completa come ne fosse una traccia aggiunta. Il concerto è stato di rara intensità: coinvolgente, stilisticamente ricco, in cui i momenti memorabili sono parecchi. Si parte a razzo con In The Flesh, una rock ballad marcatamente floydiana, tiratissima con tanto di fuochi d’artificio finali mentre un aereo militare tedesco attraversa tutto lo stadio per schiantarsi contro il muro. Si passa da pezzi carichi di lugubri leitmotiv (Is There Anybody Out There), ad intimiste song d'autore accompagnate dal pianoforte (come in Nobody Home con Waters che canta seduto su un divano di un salottino stile anni 30). Come da tradizione non sono mancati i pupazzi gonfiabili: l’insegnante durante Another Brick In The Wall, la madre su Mother, la moglie, impersonata da una mantide religiosa durante Don’t Leave Me Now, e l’immancabile maialone! Impossibile dire quale sia stato il momento più bello di un evento memorabile. A me piace ricordare l’esecuzione di Mother eseguita da Waters con la chitarra acustica mentre sul muro dietro di lui viene proiettata, come fosse un’ombra, l’immagine dello stesso Waters che eseguiva il brano durante il celebre concerto di Earls Court tenutosi ben 31 anni prima. E poi, finalmente!, Comfortably Numb un brano che ci trasmette tutta la sua l’angoscia e la sua disperazione. Un pezzo epocale che racchiude tutte le emozioni che un brano rock possa suscitare. L’esecuzione di Waters l’avevo attesa da tempo come fosse un redde rationem in quanto la canzone era stata fin troppo spesso torturata dal vivo in questi ultimi 25 anni dalla voce troppo buonista di Gilmour (a cui, comunque, va dato atto del superbo assolo finale di chitarra). Il brano recupera il suo vecchio splendore in un’esecuzione che lascia tutti i 20.000 presenti senza fiato.
Waters concede poche parole al pubblico, quanto basta. Tutto è incentrato sul Muro: un simbolo carico di significati, a prescindere da ciò che era in origine. Il Muro della più bella opera rock di sempre.
Articolo del
13/04/2011 -
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