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Erano oltre trenta anni che gli America non tornavano in concerto in Italia. L’occasione giusta si è presentata nel tour celebrativo del 40° anniversario della loro attività musicale e la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma era colma in ogni ordine di posto. Un pubblico composto non soltanto da persone con tanto voglia di nostalgia, ma anche da giovani assolutamente entusiasti, come dimostrano le grida stridule che mettevano a dura prova i nostri timpani che provenivano dalla fila subito dietro, e che ci hanno accompagnato per tutta la durata del concerto.
Molto tempo è passato dal 1971, non ci sono più la speranze in un mondo migliore né gli stimoli che offriva tutta la cultura in quel periodo, anche sul piano musicale. Ma gli America non si sono fatti stritolare da tutto questo. E’ vero, hanno perso per strada Dan Peek, che nel 1977 ha abbandonato il gruppo per iniziare una carriera solista, e sono rimasti soltanto in due: Gerry Buckley e Dewey Bunnell, che si alternano alla chitarra e alla sezione vocale. Accanto a loro Richard Campbell, al basso, Michael Woods, chitarra e pianoforte, e William Leacox, alla batteria. Il gruppo inglese, che ha scelta di chiamarsi America per onorare la terra dei loro padri, militari statunitensi sposati a donne britanniche, è stato fra i primi a dare rilievo a quel rock acustico che adesso è l’approccio preferito sulla scena “indie”. Ma lo hanno fatto rischiando moltissimo, proprio in un periodo in cui in Gran Bretagna si celebravano le gesta dei Pink Floyd, dei Traffic, dei King Crimson, loro guardavano oltre Oceano e ascoltavano i Byrds, Bob Dylan, i Grateful Dead e Crosby Stills Nash & Young. Sono queste le radici del mainstream rock degli America, che si ispira alla West Coast degli U.S.A. al quale aggiunge una sezione ritmica molto dinamica e una predisposizione innata per ballate melodiche e sognanti. Gli America, nella loro line up attuale, stanno registrando un nuovo album, ma l’esibizione di questa sera è interamente dedicata al loro passato. E’ come sfogliare un album di ricordi e si comincia subito alla grande con brani come Tin Man e You Can Do Magic, che mirano diritti al cuore dei presenti. La serata è un crescendo, il calore e l’affetto con cui Gerry e Dewey offrono al pubblico le loro creature più care è contagioso. Don’t Cross The River e Daisy Jane fino all’incantevole I Need You una delle più belle love songs mai scritte, semplice ed essenziale, una poetica musicale in chiave acustica e molto naturale come quel “fiore che ha bisogno della pioggia”. Sembra un greatest hits dal vivo: Ventura Highway, Only In Your Heart con l’aggiunta di una bella versione revisitata di California Dreamin’, il vecchio successo dei Mama’s & Papa’s. Gli America dialogano con il pubblico, raccontano di quegli anni, di quanto e come siano stati fortunati a viverli, sempre a contatto con musicisti incredibili. Un’era davvero magica, e allora via con Lonely People e poi ancora con la ritmica cadenzata ed esaltante di Sandman, una ballata che contiene un groove ineguagliabile che ricorda a chi vi scrive i giorni del liceo, ma che ancora oggi non è di certo inferiore sul piano musicale con le cose che ascoltiamo adesso. Il pubblico è in visibilio: Sister Golden Hair, Riverside e Woman Tonight ci regalano altre emozioni per un concerto davvero lungo, ma che scorre via con leggerezza assoluta e in maniera molto godibile.
Giunti al termine della serata gli America si congedano con Survival, ma poi ritornano ancora sul palco, sicuri come sono di aver dimenticato qualcosa. Eccola infatti, arriva Horse With No Name e la gente non riesce più a stare seduta, invade le prime file e si proietta in piedi sotto il palco a tributare l’ultimo abbraccio alla band che più di altre ha regalato sogni e momenti felici. Di questi tempi non è affatto poco, credetemi.
Articolo del
18/04/2011 -
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