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Ok: la musica, e le intense canzoni di Queen Of Denmark, uno dei più bei dischi della scorsa annata. Ma poi anche il personaggio. Vincente grazie alla sua voglia di comunicare esattamente quel che pensa e che prova senza (più) sotterfugi di alcun tipo. Se ne ha una dimostrazione definitiva verso la fine del concerto, quando John Grant dice: “So che questo è il momento del concerto in cui io dovrei dire “questa è l’ultima canzone”, eseguirla e poi andare nei camerini, aspettare qualche minuto e tornare in scena per gli encore, ma non lo voglio fare: sarebbe una menzogna. Quindi resterò qua sul palco e suonerò tutte le canzoni che ho...” Finalmente qualcuno che voglia scardinare una delle più idiote, vetuste consuetudini dei concerti dal vivo – mi viene da pensare. Ma poi a ben vedere questa incondizionata onestà pervade un po’ tutta la produzione (e i testi) di John Grant, ed è alla base del successo dell’artista, a partire dal primo brano eseguito durante il concerto al Circolo di Roma, l’inedito – che dovrebbe entrare a far parte del prossimo album – You Don’t Have To (Pretend To Care), le cui liriche sono un vero e proprio manifesto d’intenti: “You don’t have to pretend to care /You don’t have to say things that you don’t mean”.
Insieme a Grant, in una data romana quasi da sold-out, non c’erano i Midlake, la band texana che ha suonato sul disco e che talora lo accompagna dal vivo, ma unicamente il tastierista Casey Chandler, leader degli emergenti Galapaghost: ne è risultato un set più intimo e minimale, caratterizzato dal pianoforte suonato da Grant e dai contrappunti di synth di Chandler, che ci ha però consentito di apprezzare maggiormente la bravura di un Grant “nudo e crudo”. John Grant, originario del Michigan e quindi trasferitosi a Denver in Colorado, è un maestoso orsacchiottone barbuto dalla poderosa voce baritonale. Artista di culto con la sua band The Czars – attiva tra il ’94 e il 2004 – ha trovato la propria strada solo lo scorso anno con il primo album solista Queen Of Denmark, composto essenzialmente da ariose canzoni pop piano-based. Nulla di originalissimo, verrebbe da dire. Elton John, Billy Joel e, in tempi recenti, Ben Folds, hanno tutti e tre detto molto di quello che c’era da dire in questo ambito. Se non fosse che le canzoni dell’album di Grant possiedono delle aperture melodiche non comuni e che la voce (sentita e sofferta) di Grant e le sue liriche (che raccontano il sofferto coming out di un omosessuale nel Midwest e nel West degli USA durante gli anni Settanta e Ottanta) fanno tutta la differenza e spingono le canzoni di Queen Of Denmark verso territori mai battuti prima. Mai con tanto candore, quantomeno. Su queste basi, la data di Roma è stata una carrellata trionfale, a partire dai brani già conosciuti, accolti con dei boati fin dalle prime note: la bowiana (nel senso di quasi-fantascientifica, alla Space Oddity) Sigourney Weaver, la malinconica torch-song Where Dreams Go To Die e la perfezione pop di I Wanna Go To Marz, uno dei migliori pezzi del 2010. E poi, ancora, la scanzonata Chicken Bones, Outer Space, Silver Platter Club e It’s Easier, fino ad arrivare al brano dal titolo e dalla lirica più forti e provocatorie di tutta la produzione di Grant: JC Hates Faggots, traducetevelo da soli considerando che JC sta, ovviamente, per Jesus Christ. Dopo TC And Honeybear arriva il momento dei bis o pseudotali, nel corso dei quali Grant – in solitario al pianoforte - attinge al repertorio degli Czars, dapprima con L.O.S. dall’ultimo e forse miglior album della band Goodbye (2004), quindi con l’inferiore Drug da The Ugly People Vs. The Beautiful People (2001). Si ha l’impressione che il concerto si stia avviando su una china discendente, e allora Grant stupisce tutti con una versione di Queen Of Denmark che, per via della eccezionale performance vocale, è destinata a restare nelle orecchie dei presenti tra le cose migliori ascoltate (quantomeno dal vivo) in questo 2011. Seguono l’eltonjohniana Fireflies e una Caramel che fa venire alla mente Antony & The Johnsons. Infine John Grant si congeda, nel diluvio di applausi di una platea ai suoi piedi fin dall’inizio, suonando un terzo pezzo dal repertorio degli Czars, quella Little Pink House che all’epoca (2004) compose ispirandosi alla casa nel Michigan della sua amata nonna, donna molto importante nella sua vita e, ricorda, quasi “una vera capofamiglia”.
Come usa dire in queste occasioni, chi non c’era si è indubbiamente perso qualcosa. Anche perché in futuro – è prevedibile – sarà difficile poter (ri)vedere John Grant in una situazione così intima e circoscritta. Magari, chissà, tra qualche mese tornerà pure, ma in un luogo tipo Auditorium, forse insieme ai Midlake e con un accompagnamento orchestrale. Vogliamo scommettere?
SETLIST:
You Don't Have To (Pretend To Care) Sigourney Weaver Where Dreams Go To Die I Wanna Go To Marz Outer Space Chicken Bones Silver Platter Club It's Easier JC Hates Faggots TC And Honeybear L.O.S. Drug Queen Of Denmark Fireflies Caramel Little Pink House
Articolo del
25/04/2011 -
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