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È un tranquillo lunedì sera di primavera, con il Circolo pieno per metà ad accogliere i genietti elettronici d’oltre Atlantico: il rumorismo sovversivo di John Wiese e la caleidoscopica cornucopia di suoni elettro-acustici di Matmos. È una preview di avvicinamento alla due giorni del Festival Meet in Town, all’Auditorium di Roma, i prossimi 22-23 luglio.
Attacca John Wiese nella solita tenuta nerd, occhialetti di ordinanza e camicia a scacchi, alla guida di laptop e mixer per trenta minuti scarsi di proverbiale cavalcata noise. C’è tutto il retroterra del più devastante sperimentalismo rumorista à la Merzbow, il seminale e prolifico artista giapponese con il quali il nostro ha spesso collaborato, con echi che a noi paiono ricordare anche i primissimi Einstürzende Neubauten (che ritroveremo il 1° giugno all’Auditorium di Roma!) e soprattutto un’attitudine compulsiva degna di un Jim Foetus /Clint Ruin /Thirlwell dell’epoca digitale, seppure senza la sua proverbiale, delirante logorrea. È un susseguirsi inarrestabile di bassi epici, incastonati in frammenti di distorsioni, stratificazioni rumorose, glitch, sbalzi di tensione, per una performance di pura distruzione sonora, che lascia abbastanza interdetto il pubblico romano.
Una breve pausa ed ecco che Matmos salgono dietro laptop, tastiere, mixer e quant’altro: il sorridente e al solito spiritosissimo Drew Daniel, con cravatta di ordinanza e un’estetica alla Kraftwerk e il compagno di vita e di palco Martin Schmidt, con gilet nero e paillettes argentate; quindi un appartato chitarrista, praticamente di spalle. Ci chiedono silenzio per una prima parte del concerto che è una sorta di lunga pièce in cui rumori acustici (il triangolo, ad esempio), tappeti sonori distopici e frammenti digitali di Matmos accompagnano le litanie di quattro coppie di coristi uomo/donna nerovestiti, in una sorta di oscura e postmoderna orazione funebre, accompagnata da uno zoppicante video di quella che pare una morgue virata in seppia. Stentati simbolismi da messinscena esoterica sembrano evocare sonorità assai lontanamente sorelle di Popol Vuh, piuttosto che dello Steven Stapleton di Nurse With Wound prima maniera. Ma, onestamente, senza esserne minimamente all’altezza; del resto è lo stesso Daniel a dirci che per i coristi era una sorta di prima prova. E così ci rimangono scarsi quarantacinque minuti di una performance che ci lascia solo intuire le potenzialità live di Matmos: alternanza esplosiva di suoni acustici, elettronici e digitali, con una chitarra in perenne, appartato, accompagnamento: il terzo uomo che si intravede solamente al lato del palco.
Eppure nella manciata di pezzi proposti stasera, a partire dall’iperironica Montana, si intravede il caotico e irresistibile talento della loro inventività sonora: cinguettii, acqua che scorre, rumori metallici, flauti, tastiere vintage, sontuosi tappeti sonori digitali, una cassa dritta che solo a momenti fa capolino. È un frammento dell’armamentario che ha stregato Bjork, qui solo timidamente centellinato. Arriva il bis che ci auguriamo sia solo il primo di una serie ed invece finisce lì: mezzanotte appena, proprio quando Miriam si sveglia... e intorno non ci sono Cenerentole, né la creativa comunità transgender romana che eravamo sicuri di incrociare in questa serata romana, considerando il capolavoro di Matmos: The Rose Has Teeth In The Mouth Of A Beast. Sarà per la prossima: magari già a Meet In Town, anche se senza Matmos.
Articolo del
26/05/2011 -
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