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L’equivalente metallaro dei fustigatori televisivi che trovano da ridire su tutto e su tutti- tranne che su se stessi, s’intende - è il “duro, puro e sofistico”: l’esemplare, tutt’altro che raro (fatevi un giro sui vari forum per rendervene conto), si aggira per il World Wide Web armato di mazza chiodata castigatrice, manco fosse Burzum, da utilizzarsi ad libitum sulla groppa degli organizzatori dei megafestival estivi - come il Gods Of Metal o l’omologo tedesco Wacken Open Air -, colpevoli, a suo dire, di snaturare il senso profondo del metallo, riducendolo a un’abnorme sagra paesana per ascoltatori di bocca buona, seguaci del metal più mainstream, e per di più lucrando in maniera scandalosa su birra, panini, magliette e via dicendo (e su quest’ultima parte, effettivamente, non gli si può dar torto).
Evidentemente memori della crocifissione mediatica subita in anni recenti a causa di lineup “alternative”, comprendenti band delle nuove generazioni che proprio faticano ad andare giù alla vecchia guardia, gli organizzatori del Gods sono corsi ai ripari, armando un battaglione di arnesi sacri dell’hard rock, comandato nientemeno che dai Judas Priest, con Europe e Whitesnake a fare da luogotenenti e addirittura i redivivi Mr.Big schierati in seconda linea. Risultato? Pienone e bolgia alla Fiera di Rho (ottima scelta, area spaziosa e ricca di sfogo, buona acustica, da tenere in considerazione per i prossimi anni); gli scontenti cronici per oggi scompaiono o restano prudentemente in incognito. Anche il metal, come tutto il resto, specialmente in Italia, è gerontocratico, che volete farci?
Per i consueti motivi ferroviari, non ci è possibile vedere i Baptized In Blood, dei quali, peraltro, ignoravamo l’esistenza fino all’altro ieri. Più o meno volontariamente, invece, avremmo potuto evitare gli infami Cavalera Conspiracy. C’è un modo di essere buzzurri anche con classe, ad esempio, evitando di tirare gratuitamente in mezzo Dio, e tutti coloro che, per i motivi più svariati, hanno piacere di crederci. Stroncati per l’atteggiamento più che per la musica, un crossover con velleità etniche su cui i Sepultura avevano già detto tutto quello che c’era da dire; e, a proposito della compianta creatura dei fratelli Cavalera, l’unica nota positiva viene dall’inserimento in scaletta della storica Roots Bloody Roots, che è pur sempre un calibro Parabellum anche se qui è praticamente coverizzata. Andate in pace.
A ricordarci che il vero rock non ha bisogno di tante boiate arriva il segaligno e ulteriormente imbiondito Duff McKagan, alias “L’uomo il cui fegato esplose per devastazione etilica ai tempi in cui suonava coi Guns’ n’Roses”. Per nostra fortuna Duff e le sue interiora sono ancora tra noi, alla guida dei Duff McKagan’s Loaded - gli ottimi Jeff Rouse, Mike Squire e Isaac Carpenter - e, così come l’ex bandmate Slash, ora affermato solista, continuano a suonare hard rock brillante, incandescente e per nulla rammollito dagli anni che passano (capito, Axl?). Il fatto è che, anche nel caso di Chiomadoro Duff, il marchio del passato pesa, non a caso i brani più applauditi sono due classiconi dei Guns, So Fine e Attitude, facendo passare in secondo piano la produzione originale.
Chi invece appare in stabile ascesa quanto a popolarità e carisma sono i symphonic metallers Epica, sempre sofisticati, magniloquenti, tecnicamente terrificanti (in senso positivo, ovviamente) e, rispetto alle ultime apparizioni, decisamente migliorati nella padronanza della scena. Il giochetto tra la vocalità death del chitarrista Mark Jansen e i gorgheggi celestiali della bella e algida Simone Simmons (qui in un’inedita versione biondo tiziano, e strizzata in un corpetto che ha fatto precipitare al suolo le mascelle di tre quarti della popolazione maschile) è fin troppo ovvio, gli olandesi non sono i primi, né gli unici a sfruttarlo: il punto è che lo fanno smaccatamente meglio di colleghi anche più navigati, nei passaggi roboanti di Resign To Surrender, Unleashed, Martyr Of The Free World, Cry Of The Moon, Obsessive Devotion, Consign To Oblivion riescono a catalizzare su di sé l’attenzione di un pubblico eterogeneo, che spazia dai deathsters ai melomani classici. Tanto di cappello, e complimenti anche per la scioltezza con cui, prima e dopo il concerto, si aggirano tra il pubblico, cordiali e disponibilissimi per foto e autografi (a proposito, Mark ci ha confidato che stanno lavorando a un nuovo album, dalle sonorità nettamente più estreme dei precedenti). Ragazzi, avete guadagnato una fan.
Altra storia per i Cradle Of Filth, eroici (riconosciamoglielo, via!) alfieri del sound gotico in una lineup talmente votata agli anni ’80, che sembrava di stare in un episodio dell’A-Team. La domanda è: che c’azzeccano? Aggiungiamoci pure che, quando vedi salire sul palco Dani Filth e soci, “Mamma mia, sempre più belli” non è esattamente il primo pensiero che ti si affaccia alla mente. Ma vi pare che questo basti a spaventare i vampiri del Suffolk? Dopo una partenza tiepidina, e un commento aspro di Dani sul fatto che gli sembri “di suonare a un barbecue party” (ipse dixit), gli aspiranti Dracula presenti sfoderano finalmente le corna. Gli scream perforanti del vocalist e le agghiaccianti tastiere affidate ad Ashley Ellyllon ci guidano tra le storie spettrali di questi menestrelli dell’orrore, Honey And Sulphur, Her Ghost In The Fog, la bellissima Nymphetamine. Nella loro incommensurabile tamarraggine, riescono a piacere nonostante un contesto non facile. E sicuramente avrebbero avuto tutt’altra risonanza in una compagine più consona.
Il cielo non sa che fare, piove, spiove, esce un sole che spacca le pietre, insomma è confuso. Altrettanto non si può dire dei simpatici e funambolici Mr.Big, di recente autori di un ritorno in studio sfolgorante intitolato What If.... E’ normale, però, che la parte del leone venga affidata agli anthem degli anni ruggenti, e allora vai con Daddy, Brother Lover, Take Cover, Colorado Bulldog, Little Boy. Bravi e in forma, forse la vera sorpresa del festival.
Impercettibilmente sottotono invece gli Europe, con Joey Tempest e John Norum che perdono qualche colpo qua e là e la setlist post-reunion non sempre all’altezza dei loro cavalli di battaglia. Però, diamine, si chiamano pur sempre Europe e questo implica che siano più che in grado di portare a termine un concerto con i controattributi (nulla a che vedere, in tal senso, con l’Europa geopolitica). Joey ride, ciarla e sorride ininterrottamente dall’inizio alla fine, e nei ringraziamenti di rito sfodera un italiano, se non tra i migliori, sicuramente tra i meno allucinanti mai sentiti in quindici anni di Gods. E poi Carrie, Rock The Night e The Final Countdown (e anche la meno conosciuta More Than Meets The Eye, inserita a sorpresa in scaletta) sono fatte apposta per un coro monumentale, una di quelle emozioni che ci si porta dietro per tutta la vita.
Quanto a inni generazionali non scherza neppure l’amatissimo Serpente Bianco: da Is This Love a Best Years, Give Me All Your Love, Here I Go Again, Still Of The Night, Love Ain’t No Stranger, non si trova un brano dei Whitesnake che non abbia fatto epoca nel mondo del rock e seminato scompiglio tra gli ormoni degli adolescenti di allora. Nel caso del buon David Coverdale non si può neppure affermare che il lupo perda il pelo ma non il vizio, perché se da un lato la sua chioma è più fluente che mai, dall’altro lo zio Dave – sempre più somigliante a un personaggio di Dallas, tanto per restare in tema – non ha certo smesso di posare, ammiccare e gigioneggiare con tutto ciò che di femminile, più o meno appetibile, orbiti nel suo campo visivo. Spettatrici avvisate, mezze salvate. Dal punto di vista strettamente musicale, l’impressione è ottima anche per quanto riguarda i nuovi brani, formula collaudata Whitesnake con un paio di pezzi particolarmente trascinanti, Love Will Set You Free e Evil Ways. Unico neo: non è stato facile sopravvivere a quasi mezz’ora di assolo del pur stupefacente batterista Brian Tichy, e Dave con la sua irruenza rischia troppo spesso di mettere in ombra gli altri membri della band, che pure meritano, soprattutto l’eccezionale Reb Beach. Ma tant’è, tali sono le rockstar, e l’esibizione è nel complesso memorabile.
Cosa si può dire sui Judas Priest che non sia già stato detto? Nulla... E infatti non ci proveremo neanche. Perché il solo pensiero che quello che ci vede saltare e urlare come dei dannati in prima fila potrebbe essere l’ultimo concerto italiano dei veri Dei del Metallo è qualcosa che si fatica ad accettare. E’ un ronzio fastidioso, che ci si ostina a non voler riconoscere come reale. Dopo quarant’anni vissuti all’insegna del rock più sfrenato, cosa si può dire che non risulti mortifero, scontato e piagnucoloso? Dice il saggio: chi non ha nulla di buono da dire, taccia e ascolti. Diavolo d’un saggio, ha sempre ragione! Rob Halford (ingresso sul palco in rombante Harley Davidson e almeno una mezza dozzina di cambi d’abito compresi nel prezzo) e soci, ancorché orfani di KK Downing, non sono tipi da piangersi addosso. Cancellano le angosce da abbandono del pubblico con una facilità irrisoria, a colpi di giochi pirotecnici (uno sproposito, per la gioia dei fotografi), bis (quattro), e soprattutto di Rapid Fire, Metal Gods, Starbreaker, Night Crawler, Breaking The Law, Painkiller e Livin’ After Midnight che chiude le danze in un tripudio di metallo sferragliante. Il dubbio, a questo punto è legittimo: saremo forse noi fan che vogliamo a tutti i costi aggrapparci a una speranza, ma.... diciamo la verità, ve li vedete questi qua a casa in pensione a coltivare l’orticello e portare a spasso i nipotini? Noi, onestamente, pensiamo che non resisterebbero due giorni, e che l’odore della folla tornerebbe a farsi sentire prepotentemente in poco tempo… Ed è per questo che confidiamo segretamente che, al termine dell’Epitaph Tour (ma non potevano almeno scegliere un altro nome?), qualcuno ci venga a dire: Sorry, abbiamo scherzato, motherfuckers.
Articolo del
25/06/2011 -
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