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Rieccoci all’Atlantico Live, ex-PalaCisalfa, in assoluto la più disgraziata venue della Capitale dove “acustica” è un termine che non va neanche pronunciato e i gradi di calore percepiti arrivano, di questi tempi, a livelli subsahrariani. Ma l’occasione vale il sacrificio: va in scena infatti il ritorno dei Primus, lo storico trio di San Francisco condotto dal virtuoso delle quattro corde Les Claypool, tra le massime espressioni musicali degli anni Novanta a parere di chi scrive, ancorché costantemente, inopinatamente sottostimati (più nella vecchia Europa che nei “loro” States). Eppure i sette album a nome Primus – combo dai componenti variabili a parte il sempre presente Claypool – usciti tra l’89 e il ’99 costituiscono un corpus magnifico e ineguagliato. Claypool & Co. sono riusciti dove tanti (troppi) falliscono, dando vita a un suono unico e immediatamente riconoscibile, funky ma-non-proprio, heavy ma-non-esattamente, con quel basso slappato a condurre le danze e quelle vocette beffarde alla Frank Zappa/Tom Waits a raccontare storie in apparenza surreali, il tutto imbastito con arrangiamenti e tempi di rara complessità (ai nostri tempi) per un gruppo rock. Idiosincratici, dice qualcuno. Non per tutti i gusti, giurano i non adepti. Ma che i Primus siano (stati) assolutamente originali, è un fatto innegabile. O no?
Dodici anni senza Primus sono tanti. L’ultima uscita prima dello stop era stato quell’Anti-Pop (1999) che a molti non era garbato per via della parziale connotazione nu-metal, ma che resta un esperimento temerario e, comunque, un’intrigante variazione su un tema che rischiava di diventare stantio. Non che nel frattempo Les Claypool se ne sia rimasto con le mani in mano: tra progetti solisti e collaborazioni varie, in questi anni si sarà speso in almeno una trentina di progetti. Ma adesso (era ora!) ha sentito il bisogno di ridar fiato ai Primus, richiamando, oltre al chitarrista di sempre Larry Lalonde, non il batterista “storico” Tim Alexander (peccato!) né il più recente Brian Manthia bensì Jay Lane, che dei Primus era stato co-fondatore ai primi albori, senza tuttavia mai suonare con la band durante il periodo di fulgore degli anni Novanta (benché avesse collaborato con Claypool nel progetto Sausage del ’94, che però è tutta un’altra storia). Non di una vera reunion quindi si tratta, ma di un ulteriore, tutto da scrivere, capitolo della storia dei Primus, che a settembre pubblicheranno in questa formazione inedita un album, già pronto, dal titolo Green Naugahyde. Dodici anni di buco, quindi, e si poteva pensare che il pubblico italiano li avesse dimenticati. E invece la data di Vigevano della sera precedente è andata sold-out, e questa di Roma ci va vicino, nonostante il prezzo - di questi tempi - proibitivo di trentasei euro. E, a sorpresa, c’è un pubblico variegato: non solo i fan della prima ora oggi inciviliti, ma tanti teenager e postadolescenti che ai tempi di Frizzle Fry non erano neanche nati, accorsi finanche dal remoto Sud per sentire (finalmente) dal vivo le furibonde slappate del buon Les. Guaglioni energici, insomma, tatuati e incanottierati, pronti a zompare e a sgomitare a furia di slamdancing, frustissima modalità di fruizione dei concerti che continua, ahimè, a fare proseliti. Insomma, dato che all’Atlantico per sentire qualcosa in maniera decente bisogna mettersi dalle parti delle prime file, ci sarà da lottare e da sudare. E lividi da mettere in preventivo.
Il palco è sorvegliato da due giganteschi pupazzi di astronauti che sembrano fare ciao-ciao con la manona, con le visiere dei caschi che al momento dell’ingresso della band diventano due schermi televisivi retro-modernisti, su cui scorrono immagini di vecchi film anni 40, documentari sul lato selvaggio della natura, western con James Coburn, incontri stampa di George W. Bush, nonché di tanto in tanto i tre faccioni distorti dei musicanti, preregistrati. Attacco migliore non ci potrebbe essere: To Defy The Laws Of Tradition – dal testo che è una sorta di manifesto di una band che è l’antitesi della tradizione rock’n’roll Made in USA - apertura “classica” da Frizzle Fry, il capolavoro del 1990 che fece detonare il “fenomeno” Primus (per quei, non pochi, ignari del precedente autoprodotto live Suck On This). Les Claypool si presenta, di questi giorni, come un signore eccentrico, un incrocio tra una sorta di Oscar Giannino in formato pop e un imbonitore da carny show dell’inizio del Novecento. L’aspetto è quello che è, ma quando inizia a darci dentro sul basso, suonandolo con tutte e dieci le dita, il vecchio Les conferma di essere un mostro dello strumento. Lane intanto picchia come un indemoniato, dimostrando di non essere inferiore ai suoi virtuosi predecessori, mentre il lungocrinito Larry Lalonde – quello, dei tre, che ha mantenuto un look più tipicamente rockettaro - infioretta il tutto con linee di chitarra chirurgicamente precise ed essenziali. I Primus ci sono, insomma, e non ci vuole molto perché partano i classici coretti anni Novanta “Primus suck! Primus suck!”, di sentito apprezzamento. Per Claypool & Co., naturalmente, l’attuale tour è anche (e soprattutto) un’occasione per testare i pezzi di ultima creazione. Che arrivano fin da subito, con una Hennepin Crawler difficile però da decifrare a un primo ascolto. Poi ancora pezzi noti e adorati dal pubblico, Fisticuffs e Over The Falls dal sottovalutato Brown Album (1997) e American Life da Sailing The Seas Of Cheese (1991) che creano in platea un fomento inverecondo. La parte centrale del concerto, in verità, lascia perplessi: arzigogoli ancora inediti intitolati Tragedy’s A-Comin’ e Lee Van Cleef tendono ad annoiare, e va troppo per le lunghe il siparietto virtuosistico in cui Claypool (che nel frattempo ha indossato una singolare maschera da scimmia), Lalonde e Lane si prodigano a farci sentire quanto sono bravi alle prese, rispettivamente, con la whamola (una sorta di tubo metallico a una corda che strofinato con un archetto produce particolari vibrazioni), la sei corde e il “drum solo”. Tutto parecchio (troppo) anni Settanta, ma d’altronde una certa qual tendenza al prog è sempre stata uno dei difetti inestirpabili dei Primus anche durante gli anni d’oro. Questa perciò gliela passiamo..
Non sfigura affatto Jilly’s On Smack, l’unico tra i quattro inediti di stasera che ci ha fatto venire voglia di investigare Green Naugahyde quando verrà reso disponibile. A questo punto, però la folla pare essersi quietata. Anche troppo. Ci vuole un “pezzone”, come implorano alcuni dalla platea. Bisogna tornare al massimo dei giri e Claypool & Co. non si fanno pregare, tornando a pescare My Name Is Mud dalle parti di Pork Soda (1993) e Pudding Time da quelle di Frizzle Fry. Per il bis ci si attende l’indiscussa Tommy The Cat come sarebbe ovvio, ma Claypool e Co. rispolverano invece Jerry Was A Car Race Driver, pezzo saliente di Sailing The Seas Of Cheese. Qualcuno resta deluso, anche perché il concerto si chiude qui, senza ulteriore encore e dopo nemmeno ottanta minuti di show. L’irritazione di chi si è imbarcato in una lunga e costosa odissea dalla Calabria o dalla Sicilia è comprensibile, ma a noi pare corretto così. Per bella che sia, infatti, la musica dei Primus ha sempre avuto un limite nella sua (strutturale) ripetitività: su disco tengono benissimo per tre-quattro pezzi (ovvero una facciata dei vecchi LP), dopodiché, alla distanza, ti cominciano a far accusare una certa stanchezza. E lo stesso ragionamento vale per i concerti dal vivo: due ore e più di Primus sarebbero risultate eccessive e avrebbero pregiudicato il godimento finale, e magari anche la salute (causa gli infoiatissimi slamdancers presenti in platea).
“Maybe once Primus sucked”, ha detto Les Claypool rimbrottando scherzosamente il pubblico che intonava i suoi cori d'antan, “ma adesso proprio no, ragazzi. In effetti, è da tantissimo tempo che non facciamo più schifo”. Dal 1989, quantomeno. Grandi vecchi folli geniali Primus, speriamo di rivederli presto senza dover aspettare altri vent’anni, la prossima volta.
Articolo del
02/07/2011 -
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