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Risulta davvero imponente la location scelta per ospitare i Dieci Giorni Suonati a Vigevano, altrettanto impressionante appare il roster che comprende, fra gli altri, Jeff Beck, John Mayall, Black Country Communion. Noi scegliamo di vedere i grandissimi Black Crowes che dall’Italia passano con la frequenza della cometa di Halley.
I temporali previsti per la serata battono in ritirata di fronte a cotanta bellezza, in compenso ci ritroviamo aggrediti da uno sciame di zanzare, grosse quanto una falange e cattive come Godzilla, che ci costrigono a trincerarci dietro k-way e cappelli per evitare morsi violentissimi. Niente sembra fermarle, l’antizanzare chiesto ad una gentile signora delle salamelle si arrende, il fumo delle piastre roventi non basta, neanche i jeans mettono freno a questo attacco in massa. Guardando i presenti sembra di vedere un agglomerato di corpi incapaci di contenere gli spasmi muscolari, c’è chi si gratta come un pazzo, chi si colpisce nel tantativo di ucciderne un migliaio lasciandosi ecchimosi simili a pratiche sadomaso. Nel frattempo il pubblico aumenta vistosamente, intorno alle cinquemila persone più o meno, sembra di essere immersi in un live di altri tempi, uno spettacolo che traslato negli anni Settanta s’incastrerebbe alla perfezione.
Con il calare della luce gli opener, Paolo Bonfanti Band, guadagnano il palco sebbene siano in molti ad essere impegnati nelle file per le birre e i panini. Mentre il nostro procede per il suo blues innocuo come l’attacco di un colibrì. I minuti passano veloci, niente di nuovo appare sotto l’orizzonte del tanto consunto blues, i riff son sempre quelli, i giri identici a sé stessi e le scale quelle pentatoniche. Insomma si potrebbe ricorrere alla formula nessuna nuova buona nuova, forse ma sta di fatto che dopo cinque minuti, dalla fine del suo concerto, nessuno si ricorderà minimamente di come sia andata.
Dopo quaranta minuti, in cui lo sciame sembra essere sazio di sangue, plasma, immonuglobuline e chi più ne ha più ne metta, i Black Crowes salgono sul palco accolti da un applauso scrosciante. Sono in sei e sembrano tutti in perfetta forma. La paura, per alcuni, che la band decida di eseguire per intero un set acustico viene spazzata dalle prime note di Sting Me, opener calda e viscosa su cui i fratelli Robinson mettono subito le carte in tavola. È rock, dalla flagranza southern, con due chitarre in avanti, senza una vera primadonna. Chris sembra ciò che resta di un Cristo odierno, il suo corpo appare come una sindone, peserà cinquanta kg scarsi ma si muove energicamente, snello e sinuoso, esibendo una voce chiara e potente. Dopo i primi brani qualcuno al mixer si accorge del volume in filodiffusione e ci mette una pezza permettendo al batterista, perso più volte nei primi due brani, di riuscire a sentirsi in spia, sebbene i piatti e il rullante rimarrano in secondo piano per l’intero show. Da qui in poi la band decollerà come uno shuttle. Se la calda Soul Singing fa da termometro tastando la temperatura del pubblico, la successiva Poor Elijah / Tribute To Johnson segna il tripudio di Hammond e chitarre impegnate in un fuoco incrociato in cui la Gibson SG, torturata dallo slide di Rich, sfida la Fender Telecaster, tagliente e acida, di Stacey in una lotta senza fine e senza un vero vincitore. Impossibile resistere alla sensualità esplosiva di Hard To Handle, cover di Otis Redding, sparata sul pubblico che ne canta a pieni polmoni e con i pugni alzati il ritornello, mentre Rich si produce nel solo, cesellato dalla Diavoletto rosso fuoco.
È con She Talks To Angels che la band abbandona il palco lasciandoci appesi ad un filo. Consci che per nessun motivo li lasceremo andar via senza almeno un bis eccoli riuscire per la conclusiva Remedy, un encore dovuto, necessario e preteso da quella massa di corpi che hanno urlato a gran voce il loro nome per quasi due ore.
P.S. Vista la quantità di zanzare in volo ogni applauso sarà costato la vita a migliaia di questi fastidiosissimi insetti da sterminare con il Napalm, ma questa è un’altra storia.
SETLIST:
Sting Me Jealous Again Good Morning Captain Soul Singing Wiser Time Poor Elijah / Tribute To Johnson Oh Josephine Thorn In My Pride Hard To Handle (Otis Redding cover) She Talks To Angels
ENCORE:
Remedy
Articolo del
12/07/2011 -
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