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Un concerto muscoloso ma intimo allo stesso tempo quello di John Mellencamp, nella data a Roma del suo primo tour italiano di sempre. Un viaggio ruvido e polveroso sulla rotta di una storia americana, la sua, che, spesso lontano dai più luminosi palcoscenici della discografia soprattutto negli ultimi vent’anni, ha saputo mantenersi credibile, a dispetto del tempo di oltre trent’anni di dischi e musica, di qualche battuta a vuoto, di qualche momento di smarrimento, e di tanta strada anche faticosamente percorsa.
Un concerto che ha finito (lo diciamo subito) col dividere i fan tra chi è tornato a casa entusiasta del breve e ruvido set messo in scena sul palco per questo No Better Than This tour, e chi invece (la maggior parte, a quanto pare...) non ha condiviso le scelte di impostazione della serata, della scaletta e forse anche l’atteggiamento del rocker dell’Indiana, che in tanti si aspettavano più coinvolto e coinvolgente nel guardare “dritto negli occhi”, i suoi fan italiani che da tanto, tanto tempo lo aspettavano. La prima volta di John Mellencamp in Italia era dunque un evento, in ogni caso da non perdere, per gli appassionati, i “vecchi tifosi” che negli anni ’80 avevano eletto l’allora John Cougar Mellencamp, insieme a Tom Petty e Bruce Springsteen a triade sacra di un certo rock americano, nello spirito quanto e più che nella geografia. Dopo Vigevano, quindi Roma, il primo giro in Italia. (mentre la data di Udine del 12 luglio è stata annullata, a 24 ore dall’orario di inizio, ufficialmente senza una spiegazione da parte dell’entourage, ma a quanto pare proprio per qualche contrasto tra l’artista e l’organizzazione italiana, visto anche l’esiguo numero di biglietti venduti. In ogni caso, decisione deprecabile e assolutamente irrispettosa di chi aveva acquistato il biglietto da mesi, se non supportata da una valida causa di forza maggiore, che a questo punto ci auguriamo possa venir fuori e spiegare la scelta).
Alla Cavea dell’Auditorium, Mellencamp, così come in tutte le date di questo tour, ha deciso di aprire intorno alle 21 con la proiezione del documentario It’s About You, sulle origini, la genesi e il “dietro palco” del suo ultimo lavoro discografico in studio, No Better Than This, disco molto roots oriented, ispirato ad un folk americano polveroso ma ancora emozionante, e registrato praticamente “in mono”, in alcuni luoghi simbolo della cultura e della musica popolare d’America. La scelta di proiettare il film a luci spente sugli spalti, con inizio intorno alle 21, integralmente e senza sottotitoli, non si è rivelata una grande trovata. Pubblico spazientito per la durata eccessiva della proiezione (75 minuti), per la difficoltà a seguire con attenzione i dialoghi in lingua originale, per la presenza di riprese filmate di alcuni brani che poi avrebbero fatto parte della scaletta, e per l’impazienza di vedere all’opera John Mellencamp, tornato in Europa dopo 19 anni e come già detto per la prima volta in Italia. Alle 22.30 circa (dopo la proiezione i tecnici sono saliti sul palco, nuovamente a luci accese per smontare il pannello di proiezione, e dare gli ultimi ritocchi alle accordature e alla tiratura delle pelli di batteria: altri momenti di fischi e mugugni sugli spalti) finalmente, preceduta dalla voce registrata di Johnny Cash, a mo’ di imbonitore da circo (tanto per addentrarsi ancora di più in un’atmosfera potentemente folk) ecco attaccare la band: Michael Wanchic alla chitarra; Andy York lead guitar; Miriam Sturm al violino, la più sorprendente ed emozionante della banda; John Gunnell al basso elettrico e al contrabbasso; Dane Clark alle due batterie; Troye Kinnett al piano e organo e soprattutto alla fisarmonica. Infine, entrando da un ingresso laterale solo successivamente rispetto agli altri musicisti, finalmente lui, John Mellencamp, vestito in completo scuro e camicia bianca (ma nella seconda parte dello show la giacca verrà levata per restare solo in camicia a mezze maniche, e mettere in mostra i bicipiti da working class hero), un leggero pizzetto di barba bianca, il capello che tradisce qualche ciuffo bianco (ma Mr Mellencamp lo sa che sappiamo che a quasi 60 anni, i capelli bianchi fanno comunque rock’n’roll!) e una Telecaster modello Springsteen a tracolla. Il brano che apre è Authority Song, suonato quasi rockabilly, divertente, tirato al punto giusto, certo si sente che è passato qualche anno dal disco Uh-Huh, che lo conteneva, ma la voce ruvida e sabbiosa di oggi, colpisce ancora. Sa ancora e forse ancor più di prima, colpire nel segno. La band alle spalle gli va appresso con ottimo tiro, un tiro che sa di vintage e con gran stile: è predisposto un doppio set di batteria, uno più semplice, molto folk/blues, con un solo tom, e pelli ridotte al minimo, e un altro per la parte elettrica del concerto. E per buona parte della scaletta è il contrabbasso a reggere la seconda metà della parte ritmica. L’anima folk infatti, esce subito allo scoperto, pizzicata e intensa nel secondo brano No One Cares About Me, autentico tuffo nelle radici d’America, un po’ come è sporco di blues e rock John Cockers, terzo pezzo nella setlist. Col passare dei minuti e con lo svolgersi della scaletta si ha pian piano l’impressione che Mellencamp tradisca una concentrazione quasi eccessiva, intenso carico, ma poco divertito, quasi nervoso, mai sorridente, e poco disposto a dialogare col pubblico al quale non rivolgerà neanche un timido “buonasera Roma”, un saluto o un ringraziamento per tutta la sera. Chi si aspettava il rocker animale da palco, capace di trascinare anche con un piccolo gesto fuori programma, fuor di scaletta, la contenuta ma calorosa folla della Cavea dell’Auditorium, è rimasto un po’ deluso. E’ vero che la voce e la presenza, per non dire la musica, di Mellencamp, hanno bisogno di poche chiacchiere, ma è palpabile tra il pubblico la ricerca e l’attesa di un segnale, una parola, un gesto che faccia saltare tutti dalle poltroncine, e accenda definitivamente la notte di Roma.
Così non sarà, purtroppo. A sessant’anni quasi suonati, l’ex Cougar tiene in pugno pubblico e repertorio con le sue canzoni, con intensa ispirazione, si muove a piccoli passi, ogni tanto soprattutto nei pezzi in cui non suona la chitarra acustica o elettrica, senza strafare, sicuramente meno di un tempo, di un migliaio di concerti fa, e appare solo un pochino appesantito dagli anni e dalle tante sigarette. Ma non sembra mai lasciarsi davvero definitivamente e finalmente andare. E’ sicuramente anche questo che i suoi fan italiani non hanno digerito, criticandolo apertamente sui weblog, sui social network e su Internet in generale, in questi giorni successivi ai due concerti italiani: un rocker che non si dà totalmente al suo “popolo”, tradisce quasi un difetto di generosità, di dedizione verso chi ti aspettava da una vita. La scelta di annullare come detto, il terzo concerto italiano previsto, quello di Udine, è parso l’epilogo quasi esasperato di un atteggiamento un po’ troppo riottoso e ombroso, evidente guardando come abbiamo avuto la fortuna di fare noi, da pochi metri dal palco la sua faccia, le sue espressioni.
Tornando al concerto, dopo una parte più rock della scaletta dove spicca bellissima quella Check It Out, tratta da The Lonesome Jubilee, letteralmente accesa dal violino di Miriam Sturm e dalla fisarmonica di Troye Kinnett (la prima ormai da vent’anni, vero solista della banda di Mellencamp), le luci si abbassano, il rocker di Bloomington, Indiana resta solo sul palco con la propria chitarra acustica, e in un’atmosfera da brividi silenziosi regala un pugno di gemme acustiche, graffiate da una voce ruvida, immensa: Save Some Time To Dream (tratta dal suo ultimo disco), la prima strofa di Cherry Bomb, fatta a cappella, una intensissima Jackie Brown che colorata da un violino struggente, diventa uno dei momenti più belli della serata. Anche in questi casi, però sembra mancare a Mellencamp, quella piccola scintilla, magari la presentazione di almeno un pezzo che serva ad avvicinare il pubblico al proprio intimo, al proprio racconto. Il rocker dell’Indiana preferisce invece parlare con uno dei suoi vecchi brani, Jack And Diane, uno dei suoi pezzi più popolari, ma ri-arrangiato in una bella versione folkie full band, prima di regalare ancora con Small Town e The Longest Days altri due momenti acustici molto intensi, da solo o accompagnato da Andy Yor, alla chitarra classica o dalla fisa di Kinnett.
Intanto il pubblico, ancora in buonissima parte seduto, aspetta che un piccolo segnale infiammi la notte folk dell’Auditorium. E’ una bella e lunga introduzione a luci basse, fatta da violino e fisarmonica a introdurre l’ultima parte di un concerto tanto intenso quanto breve (un’ora e mezza scarsa, poco più del filmato proiettato all’inizio: un po’ troppo poco in proporzione), e proprio al termine di questa intro, che sfuma sulle note iniziali stavolta più decisamente rock ( batteria al gran completo e basso elettrico) di Rain On The Scarecrow, che John Mellencamp compare di lato, sbucando da dietro le quinte, di nuovo con la Telecaster a tracolla, la sigaretta in bocca, accesa in quei pochi minuti dietro il palco, e lì, lontano dal microfono, lontano dal centro del palco, potrebbe davvero con un gesto far scendere giù l’Auditorium. Il boato del pubblico che lo vede lì, in penombra, è di fibrillante energia, come a dire: noi siamo pronti, facci solo un gesto e bruciamo la notte. Qualcuno adesso è già in piedi, sul parterre e sulle tribune. Lui getta la sigaretta a terra, riprende il suo posto dietro il microfono e sputa una Scarecrow da panico, bella rabbiosa: Ma quel gesto, quello scarto in avanti (ma anche di lato, di dietro: sarebbe stato uguale) alla fine non lo fa. Così bisogna attendere le prime note di Crumbling Down perché il pubblico spontaneamente decida di assieparsi sotto il palco per il gran finale. Lo show si fa più vivo, con mani alzate e gambe e piedi che ballano. If I Die Sudden è un potente incedere tra il rock e blues, che lancia una sudatissima Pink Houses, e poi la definitiva R.O.C.K. In The U.S.A., finale quasi classico e immancabile per Mellencamp, con il pubblico che canta in coro, un ragazzo dalle prime file che viene tirato su dal rocker di Bloomington (particolarmente serio quando si avvicina alle prime file per individuarlo) e al quale viene lasciato il microfono per cantare l’ultima strofa con inciso finale, in un tripudio per lui, di giusta emozione e con un’ottima esecuzione vocale sottolineata dallo stesso John. E’ l’ultimo brano in scaletta, non c’è spazio neppure per un bis, e dopo poco più di 75 minuti di musica, tanti si aspettavano almeno un encore... Invece niente, saluta così questo rocker atteso da sempre in Italia, anche se finalmente con un bacio lanciato verso il pubblico.
La sensazione è quella di aver assistito ad un concerto di grande musica, di qualità e forza, ma al quale è mancata la scintilla o le scintille, per accenderlo davvero, e che sia durato troppo poco per ripagare tanta fiducia e tanta attesa. E così e comunque, per tanti motivi, sarà comunque una notte da ricordare, la prima notte romana di John Mellencamp.
Articolo del
14/07/2011 -
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