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L’attesa per la prima volta dal vivo di John Mellencamp sull'italico suolo era davvero spasmodica. Venti lunghi anni sono occorsi infatti per poterlo vedere salire on stage in quel di Vigevano, all’interno della rassegna Dieci Giorni Suonati, data iniziale del minitour italiano del nostro.
Una carriera quella del buon Mellencamp che lo ha visto sempre più trasformarsi da icona del rock a stelle e strisce in una sorta di Woody Guthrie del nuovo millennio, come ben si evince dalle sue ultime splendide fatiche discografiche, dal taglio decisamente roots oriented. Proprio questa deviazione verso sonorità più prettamente acustiche era uno dei tarli che affliggeva più di un die hard fan. Che tipo di concerto avrà ideato il nostro? Ci sarà spazio per i brani degli ultimi dischi così come per i grandi classici? Queste domande lasciano trasparire grandi aspettative che purtroppo nel corso delle serata verranno più volte deluse.
Ma andiamo per ordine,innanzitutto arrivati nella splendida location< del concerto, il Castello di Vigevano, quello che colpisce all'istante è l'enorme maxischermo posizionato al centro del palco. Ed ecco qui la prima vera nota dolente della serata; a differenza degli altri concerti della rassegna, infatti non sono previsti gruppi spalla ma la proiezione di It's About You, film documentario che narra della realizzazione di No Better Than This, ultima fatica discografica del musicista americano e la conseguente trasposizione on the road della stessa, con video dei vari concerti tenuti lo scorso anno negli Stati Uniti. Scelta a mio avviso del tutto deleteria, in quanto pur essendo un documentario di indubbio valore musico-sociale, la sua proiezione pre-concerto è risultata, vista anche la durata, alquanto tediosa.
Alle dieci e mezza circa, la voce di Johnny Cash in God's Gonna Cut You Down, seguita da una pomposa, e forse un poco autocelebrativa, presentazione registrata, danno finalmente fuoco alle polveri. Polveri che appaiono da subito bagnate con una Authority Song che, pur mantenendo inalterato il proprio fascino, manca di mordente. Decisamente meglio No One Cares About Me, in puro rockabilly sound, così come la sempre splendida rilettura di Death Letter di Son House, trasudante blues da ogni nota. L'entrata sul palco della violinista Miriam Sturm, e del tastierista/fisarmonicista Troye Kinnett, porta sempre di più la band verso un suono elettroacustico, con le chitarre di Andy York e Mike Wanchic ben supportate dal contrabbasso di John Gunnell e dalla cocktail drum sapientemente percossa da Dane Clark.
L'incalzante John Cockers, la soave Walk Tall e l'intensa West End ben rappresentano quello che è diventato Mellencamp oggi; un folksinger dalla penna ispirata, dotato di una voce roca e cavernosa, in grado di raccontare storie e leggende che arrivano dalle più polverose strade americane. Check It Out riporta in vita invece il vecchio Little Bastard, ma anche in questo caso manca di intensità. Save Some Time To Dream per sola chitarra acustica mantiene inalterato il proprio fascino, ed insieme alla struggente Jackie Brown, è uno dei momenti più alti dell'intera perfomance. Quello che stupisce è la freddezza di Mellencamp; sembra quasi assente, come se non gli importasse di essere su palco di fronte ad una platea adorante. Una minima scossa sembra arrivare con Cherry Bombs, cantata a cappella insieme a tutto il pubblico, sfociante in una riuscita versione country style di Jack And Diane. Dall'alto tasso emotivo è sicuramente Small Town che vede il nostro nuovamente imbracciare da solo la chitarra acustica. Fisarmonica e violino diventano invece protagonisti nell’intermezzo strumentale di The Old Rugged Cross, vecchio tradizionale di origine scozzese, nel quale la Sturm dimostra una volta di più tutto il suo talento. Decisa scossa elettrica arriva invece con Rain On The Scarecrow e Crumblin Down, con il pubblico che finalmente sembra gradire. If I Die Sudden con quel suo sinuoso andamento rock blues carica ulteriormente l'audience. Ma proprio quando il concerto sta per decollare ecco arrivare le due zampate finali. Pink Houses è epica come ci si aspettava, un brano che il tempo non sembra aver scalfito minimamente. Mentre alla corale Rock In The USA spetta il compito di chiudere la serata tra il tripudio generale.
Niente bis, il nostro saluta e se ne va, dopo un ora e mezza scarsa di concerto. Certo, il valore di una prestazione live non si misura dal minutaggio; basti vedere e sentire quanto fatto dai Black Crowes giovedì sera nel medesimo posto e nel medesimo minutaggio; ma quello che mi ha lasciato perplesso è stato il modo di stare sul palco del musicista di Bloomington. Fin dall'inizio si è dimostrato distaccato, quasi assente, come volesse porre fine al più presto al concerto. E proprio di "compitino" è la sensazione che rimane alla fine di tutto, con una scaletta forse non studiata dettagliatamente, che voleva accontentare tutti senza alla fine avere accontentato totalmente nessuno. Se il nostro avesse optato per un'iniziale parte acustica, costruita sui pezzi degli ultimi album, e una finale elettrica con i suoi classici, forse staremo qui parlare di un vero e proprio evento. Quello a cui abbiamo assistito questa sera invece è stato un buon concerto di musica americana con la A maiuscola ma privo di quegli ingredienti che rendono una perfomance indimenticabile: sudore, empatia con il pubblico e passione. A Mellencamp sono mancate tutte tre e in certi momenti più che un coguaro allo stato brado, pronto ad assalirti con una zampata, sembrava un povero animale chiuso nella sua minuscola gabbia incapace di muoversi agevolmente ma solo di ruggire di tanto in tanto.
Articolo del
16/07/2011 -
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