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Dopo l’apertura del festival Guitar Legends, affidata al mostro sacro del jazz Robben Ford, si procede con John McLaughlin & The 4th Dimension, forse il più importante evento di questa rassegna in onore delle chitarre. Durante la sua lunghissima carriera McLaughlin ha collaborato con i più grandi musicisti in ambito jazz, rock e fusion: da Chick Corea a Carlos Santana, duettando con Al Di Meola e Paco De Lucia solo per citarne alcuni. Tutt’altra cosa è stata la sua militanza nelle leggendarie (appunto) session di Bitches Brew, capo(saldo)lavoro di Miles Davis.
Il signore della sei corde jazz-rock, accompagnato dalla sua “quarta dimensione”, si presenta sul palco dopo una piccolissima introduzione di Giampiero Rubei, nuovo direttore artistico in carica a Casa del Jazz. Sono le 21.00 di una sera piacevolmente ventilata, quando John fa il suo ingresso sul palco seguito dai tre membri della band. Non è cambiato niente rispetto all’ultima volta che l’abbiamo visto all’Auditorium, se non la sua età aumentata di tre anni. The 4th Dimension è il suo ultimo progetto, con lui sul palco troviamo il formidabile bassista Etienne Mbappé, Ranjit Barot alla batteria e Gary Husband, polistrumentista alle tastiere che, durante l’arco della serata, siederà più volte dietro le pelli di una Pearl montata a fianco della Yamaha. Il tour è quello dell’ultimo To The One e si apre sulle note di Raju durante la quale il solo riscaldamento delle dita di John provoca in alcuni applausi spellamani e ammirazione totale, in altri imprecazioni tipiche del dialetto romano. McLaughlin suona senza amplificatore, usando una sola chitarra e verosimilmente due effetti, la sua grazia e tecnica chitarristica rasentano la perfezione assoluta. Durante la serata potremo notare solo due piccole sbavature cosi ben incastonate all’interno del solo da farci supporre che lo stesso John abbia voluto dimostrare di poter sbagliare pur rimanendo divino. Per il resto il suo fraseggio può mandare in pensione il 90% dei chitarristi in circolazione. Veloce e pulito percorre la tastiera della sua chitarra dando il la ai dialoghi fra l’elettrica e il basso, suonato magnificamente da Etienne che indossa guanti neri. Le mani del bassista schizzano via come fulmini sulle corde di un basso blue(s) su cui si slappa imbeccando Ranjit alle pelli, già impegnato in uno scontro titanico con Gary, rumorossimo batterista molto simile per volume di fuoco a Alphonse Mouzon. Il suo è un gioco di piatti e cassa su cui spara rullate e terzine micidiali, crash e ride vengono frustati con violenza mitigata da Ranijt, molto più delicato e squisitamente jazz. I momenti di “improvvisazione” sono quelli più elettrizzanti. John esegue Unknown Dissident e la micidiale The Fine Line, potentissimo brano in cui il basso detta legge ritmica.
Il resto è puro piacere per le orecchie: le armonizzazioni, le scale, gli incroci serrati e i passaggi delicati di alcune atmosfere più sognanti, riempite dai synth di Gary e dal suo Mac, non sono mai fini a se stessi ma ricoprono un ruolo fondamentale permettendo, ad uno dei massimi esponenti del jazz ancora in vita, di esprimere tutto il suo elegante stile.
Articolo del
22/07/2011 -
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