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Checché se ne dica l’Auditorium Parco della Musica ci ha abituati a concerti di livello molto alto, anche nel caso del Festival Jazz i nomi sono sempre altisonanti: si va da Wayne Shorter a Mike Stern passando per i vari Bollani, Rava e molti altri. In questa fredda serata di novembre invece sarà la potente voce di Dee Dee Bridgewater a scaldare l’aria attraverso una serata speciale dedicata ad una delle figure femminili più imponenti del jazz, Billie Holiday.
Il concerto è un sold-out, di quelli veri, che ha inizio verso le 21.30. Mentre i musicisti guadagnano lentamente il palco la gente continua a sedersi con calma e pochi minuti dopo il solito messaggio che vieta foto e riprese ecco arrivare sul palco la regina della Sala Sinopoli. Capello rasato, vestito in lamè, corpo ancora piacente e voce astronomica impugna il microfono per ringraziarci tutti, ma proprio tutti, più e più volte. Si parte con Lady Sings The Blues suonata per metà su ritmica swing e per l’altra sul blues in cui Dee Dee mette le cose in chiaro. La sua voce cristallina arriva limpida fino alle ultime file mentre Craig Handy, al sassofono, l’accompagna in un duello all’ultimo sangue, ed è solo l’inizio perche in Lover Man la sua interpretazione è da brividi lungo la schiena. Nel frattempo molto lentamente i singoli elementi della band iniziano a mostrare le loro qualità, su tutti Edsel Gomez al pianoforte infila scale dal colore cangiante, controtempi e armoniche battute esplose dall’hammering sfrenato. Pochi minuti dopo è la volta di una toccante (Hush Now) Don’t Explain, giocata sui saliscendi armonici e dal fuoco in gola di questa inarrestabile mattatrice. Un piccola pausa prima di arrivare alla dinamica New Orleans in cui la stessa cantante s’infila nel duello fra sax e pianoforte imitando il suono del trombone per tre minuti di pura dinamite vocale. I toni si stemperano con la triste ballad You’ve Changed e la successiva My Man Don’t Love Me introdotta dall’aggraziato solo di Kenny Davis al contrabbasso su cui il sax impazzito cesella scale da cardiopalmo. Poi arrivano Your Mother’s Son-In-Law e la toccante God Bless The Child passando infine a Strange Fruit, la più controversa canzone di Billie scritta nel 1920, che le costò vari arresti per aver oltraggiosamente ignorato il divieto di eseguirla dal vivo. In mezzo a tutto questo un capitolo a parte merita il sinuoso batterista Kenny Phelps che, fra controtempi e passaggi felpati, infila due assoli da apnea. Kenny usa tutta la parte superiore del corpo per suonare tom, rullanti piatti e timpano perforando, insieme ai nostri timpani, il muro del suono. Un gigante assoluto che strappa più d’un sorriso alla stessa leader, comodamente seduta per ammirare il suo show.
La fine del concerto arriva con un bis, rumorosamente chiesto dal pubblico estasiato, in cui tutti si ritagliano un picco spazio per il solo. Prima di scendere dal palco, fra una marea di applausi scroscianti, la band s’inchina più volte per ringraziare gli astanti. It’s a long way to Billie, but...
Articolo del
19/11/2011 -
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