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Una serata carica di ritmo quella dello scorso sedici novembre al Circolo degli Artisti di Roma. A ripristinare le fascinazioni del punk rock internazionale ci pensano da Foligno i Tiger!Shit!Tiger!Tiger!, da Londra i Male Bonding e da San Diego l’icona indie dei Pinback. Un triangolo sostanzialmente scandito da una ruvidezza di suono molto americana, un gioco di botta e risposta tra chitarre e batteria che segue i precetti rudimentali dei nineties e la rumorosa reminiscenza di mamma Sub Pop.
A tre anni dall’esordio e ad uno di distanza dall’ultimo Whispers, i Tiger!Shit!Tiger!Tiger! sul palco suonano con maggiore destrezza, probabilmente forti dell’esperienza acquisita tanto a casa propria quanto oltreoceano dove da due anni a questa parte sono chiamati a rappresentanza italiana al South By Southwest di Austin, tra i più importanti festival indie d’America. Sebbene i due headliner della serata siano, nonostante gli anni che li separano, nomi grossi e altisonanti (almeno fra la stampa specializzata), il vero pienone in sala si sfiora solo con i Male Bonding, probabilmente la band più chiacchierate dell’anno visto l’andirivieni di stelle e strisce che ha colpito l’ultima generazione dei bimbi inglesi. Cresciuti a pane, acqua, Nirvana e Mudhoney, in effetti, sia John Arthur Webb che i restanti due soci hanno davvero le facce da college-nerd americano: berretto di lana in testa per lui, sguardo schivo e portamento gobbo per il batterista Robin Christian e capello biondo sudicio l’altro, cioè Kevin Hendrick al basso. Succede così che i Male Bonding fanno un concerto coi fiocchi, sprigionando tutta quell’energia veicolata dagli album solo in minima parte. La loro grafia è oramai scolpita (e forse anche un po’ limitata) in pezzi poderosi, chitarre spigolose che calzano perfettamente sulle entrate di basso e batteria. I brani più riusciti sono quelli tratti dal primo disco, Nothing Hurts (2010), anche se per tutto il concerto, in fondo, le teste dei presenti oscillano niente male anche sui riff granitici dell’ultimo Endless Now. Rullate di batteria e coretti a raffica fino allo scattare del pogo più degenerativo che accompagna le migliorie della scaletta: Carrying, Bones, Before It’s Gone, Tame The Sun è vera flanella e sottolinea una corposità stilistica rodata e ben funzionante, distante anni luce dal ritmo floscio e poseristico che si respira nei live dei vicini Yuck.
La ciliegina arriva alla fine con i Pinback. Visti i tempi, pensare di vedere suonare, almeno in Italia, Armistead Burwell Smith IV (Three Mile Pilot) e Rob Crow (Heavy Vegetable, Thingy, Optiganally Yours), poteva sembrare fantascienza e, invece, è avvenuto con esiti più o meno buoni. Diciamo, infatti, che di tutta la progettualità musicale che ha da sempre accompagnato questi due personaggi e i loro rispettivi lavori, probabilmente la risultante Pinback è quella meno riuscita. Se con l’assenza delle tastiere perdono notevolmente in fantasia, riescono però a sopperire benissimo in potenza con uno show muscolare che se non altro assicura alla band un motore ritmico carismatico e costante. Il tutto a scapito di un’emotività che risulta fredda e distaccata, artificialmente costruita su accordi mid-tempo saturi di vuota introspettiva, diciamo d’altri tempi. Sarà che su più riprese vengono in mente le cartelle sonore dei Modest Mouse o i derivati sintetizzati in stile Death Cab For Cutie, ma a fine serata l’inventiva della band di San Diego ci sembra davvero poca cosa per due personaggi che hanno innalzato il capitale degli anni Novanta.
Articolo del
22/11/2011 -
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