The Horrors The Horrors live @ Alpheus – Roma, 23 novembre 2011 Roma  23/11/2011 di Maria Francesca Palermo

A quattro anni di distanza dagli esordi gli Horrors sono cambiati più di quanto ci si poteva aspettare. Non è rimasto nulla di minimamente accostabile a pezzi come Sheena Is A Parasite e Death At The Chapel, nulla delle chitarre cavernose di Jack The Ripper e Excellent Choice, nulla degli anthem shoegazer dei Jesus And Mary Chain e delle benedizioni di Ian Curtis e Bauhaus. Capitoli della vicenda che ne rappresentarono il manifesto d’appartenenza nel 2007, quando Strange House tirò fuori dalla tana oscura dell’ignoto cinque giovani virgulti dall’aspetto funesto, troppo ossuti almeno per l’Italia. Stupore dei media e irritazione dei puristi, sono solo canzonette (dicevano) che presto si mummificheranno con sopra solo i ciuffi e la copertina del NME. Errore madornale. Gli Horrors in quegli anni fotografavano alla perfezione il sottobosco della City meglio di qualsiasi altra moda o esigenza commerciale: fantasmi punk in pieno boom NuRave, rumorismi urticanti e sintetizzatori vintage brindati alla memoria di Cramps e Suicide, Gun Club e Birthday Party. Ballate decadenti che lasciavano presagire gli esperimenti più cupi dell’Upper Street londinese. Il garage sintetico dei 70s si faceva strada tra il lucernaio di vinili suonati a dire basta nei venerdi sera del Cave Club, roba che se te li trovavi di fronte all’uscita metro di Highbury & Islington c’era d’aver paura.

A riascoltarli ora si percepisce tutto il processo di metamorfosi in atto: l’irruenza sediziosa delle chitarre ha imboccato una strada trasversale, un sound sfuggente che rielabora le spigolosità degli esordi in chiave ancora più libera e dilatata. Sul palco sembra di veder suonare un’altra band, più matura e consapevole dell’indirizzo imboccato. Quello che oggi gli Horrors preferiscono sviluppare è un live atmosferico continuamente annebbiato dall’eco della voce di Faris Rotter debitamente trattata e riverberata tra scenari di pura astrazione sonora, estrema potenza strumentale e dimensione di crepuscolo analogica. Privilegiata è la continuità di suono tra Primary Colours (2009) e Skying (2011), che sfasa completamente l’implementazione garagistica a favore di una osmosi psichedelica tra ritmo e stasi in gran parte proveniente dall’unità degli effetti di Tomethy Furse che passa così a Spider Webb l’onére del basso.
Dieci tracce dalle continue progressioni oceaniche (Changing The Rain, Dive In), linee di basso pulsanti e tastiere ipnotiche (Sea Within A Sea, Still Life) che lasciano intravedere una formula melodica sempre più frastornata nello sconvolgimento delle vecchie composizioni (Scarlet Fields, Mirror’s Image, Who Can Say). Uno spartito molto più controllato ed elaborato rispetto agli esordi che diventa esplosione krautica e ultra-distorta sul finale (Endless Blue, I Can See Through You, Moving Further Away).

Poche parole. Su quei ragazzi che hanno iniziato a suonare nei seminterrati nascosti con i lupetti neri e i capelli cotonati, tra le danze sincopate dei presenti, la matita nera attorno agli occhi e le ragnatele disegnate sulle note di una Londra vittoriana difficile a morire, persiste ancora lo sguardo incredulo di una fusione primitiva di garage e punk a suggello del loro Dna. Una riformulazione creativa e strumentale che nell’arco di soli tre album ha legittimato le fattezze produttive degli Horrors al pari di una band capace di uscire dai cliché con convinzione, identità e altrettanta passione.