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Dopo un piccolo accenno di primavera le temperature nella Capitale sono precipitate nuovamente. Per riscaldarci decidiamo di fare un salto alla Locanda Atlantide che stasera offre aberrazioni del blues attraverso l’asse franco-siculo per i Capputtini I Lignu e l’inglesissimo Lewis Floyd Henry.
Intorno alle 23.00 il locale è spaventosamente vuoto, siamo davvero in quattro in attesa che il tutto abbia inizio. La two-man band che ci aveva piacevolmente sorpreso con il loro omonimo esordio non si fa attendere. Due chitarre distorte in avanti e una batteria minimale, che prevede cassa e high-hat, sprigionano del ragtime-blues devastato dagli effetti. I Capputtini macinano riff richiamando il sound di George Thorogood e Link Wray, masticando 40 minuti di set che non lascia spazio per respirare. Suonano bene, sono affiatati e si divertono molto sul palco. Le due chitarre si scontrano dopo brevi rincorse, il microfono oscilla fra Cheb seduto alla batteria e avvinghiato alla sua chitarra e Kristina in piedi. A volte l’impianto non funziona a dovere, causa addormentamento momentaneo del fonico, ma per grandi linee lo show risulta efficace e gradevole.
Mentre parte il secondo Cuba Libre lo sferragliare di una chitarra si alza prepotente nella sala semideserta, è il momento di Lewis Floyd Henry. Accompagnato da una piccolissima cassa per batteria e high-hat, Lewis sembra davvero uscito da un mondo parallelo. Nero, capelli ricci, alto e dinoccolato, il sorriso diretto e sincero, come Jimi, sono caratteristiche che te lo fanno amare da subito. Ma tralasciando le impressioni e passando alla musica Henry è un mattatore, un animale da palcoscenico, capace di catalizzare l’attenzione con siparietti, battute, svisate blues potentissime e incursioni nel rapcore. Sul palco non riesce a trovare pace, sembra seduto sulle spine. Si alza, sussulta e si risiede facendo urlare la sua chitarra. Accenna piccolissime mosse hendrixiane come omaggio e mai per scimmiottamento. Il suo set è dinamite pura. Sezione ritmica e solista si fondono grazie all’uso della piccola batteria, ma anche il lavoro sulla sei corde ricorda molto da vicino il funambolismo, meno accentuato, del mancino di Seattle. A metà set invita i presenti ad avvicinarsi, nessuno si fa ripetere la cosa più di una volta e dimenticandoci che alle nostre spalle c’è praticamente il vuoto cosmico ci perdiamo in quei suoni urticanti, le nostre gambe sembrano soffrire della sindrome restless legs. Il finale piro-tecnico è una perfetta formula alchemica che mischia riff hard rock, soli blues e canto rap per 12 minuti di puro flusso cosmico.
Intenso e trascinante, Henry scende dal palco come nulla fosse, si unisce a noi per una birra e qualche foto. In pochi minuti il suo banchetto viene preso di mira, lui sorride mentre stringe mani e firma autografi mentre a noi non resta che raggiungere i nostri giacigli soddisfatti e (sur)riscaldati.
Articolo del
29/02/2012 -
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