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C’era una volta Jonathan Richman, cantautore bostoniano capace di proiettarti nel suo peculiare universo poetico, bislacco e ingenuo ma certamente non stupido, dove si celebrava l’uomo dei gelati e la sua campanella, le festicciole in giardino a base di barbecue e in generale una certa America suburbana, tanto distante dai drammi del mondo reale da risultare mitica e probabilmente inesistente, in fondo non diversa da quella delle strisce di Peanuts. Era straordinario, dal vivo, “quel” Jonathan: ricordo due concerti, il primo a metà degli anni Ottanta in un PalaEur semivuoto e il secondo qualche anno dopo sempre a Roma, al Big Mama. Due spettacoli uno migliore dell’altro, due concerti da cui uscii, a entrambi, con un sorriso ebete stampato sul volto. Oggi purtroppo (e mi costa ammetterlo) quel Jonathan Richman non c’è più, ovvero l’impatto e la resa non sono più gli stessi. Cos’è accaduto? Be’, intanto, come tutti gli umani, a 61 anni Richman è invecchiato e non ha la stessa verve di un tempo. Ma il problema è innanzitutto che – come avevo avuto modo di realizzare durante un precedente concerto, nel 2006 sempre al Big Mama – Richman nel frattempo ha imparato, e anche piuttosto bene, spagnolo, francese e... italiano, e ormai, quando viene in visita da noi, preferisce offrire delle performance basate sul suo poliglottismo e su nuove canzoni a base di flamenco e di melodia napoletana, dove i suoi sempiterni classici vengono relegati a un ruolo marginale. Com’è accaduto l’altro ieri alla Casa Clementina di Roma.
Un concerto che, peraltro, si è deciso di confermare solo in Zona Cesarini, dopo che alla precedente location, il Coffee Pot, erano stati apposti i sigilli per motivi di sicurezza. Allorché la Casa Clementina, per chi non ci fosse mai stato, è lungi dall’essere un locale da concerti, bensì un appartamento al primo piano di un palazzo riconvertito in lounge-bar di tendenza con una sala (la “camera da letto”) non più grande del salotto di casa mia – anzi, perfino meno capiente – nella quale si è scelto di far esibire Jonathan Richman e il suo fido collaboratore di sempre, il batterista Tommy Larkins. Risultato: una quarantina di persone ammassate una sull’altra senza, peraltro, il beneficio dell’aria condizionata (Jonathan infatti la detesta: “è brutta, l’aria condizionata”, ha detto a più riprese. Verissimo, ma faceva un caldo boia...) Si è sofferto, quindi, ma in definitiva come si fa a prendersela con Jonathan? A parte che il concerto era gratuito, lui è di una simpatia immediata e travolgente, talmente strampalato che pare venuto da un altro pianeta. Ma la serata prende subito la piega che si temeva: Richman, imbracciata la sei corde, attacca a cappella un’aria su una poesia di Salvatore Di Giacomo (sua recente, evidente passione). Come di consueto, interloquisce a spron battuto con il pubblico in un buon italiano, scherza, motteggia. Suona Her Mystery Not Of High Heels And Eye Shadow, title-track dell’album del 2001, ma la canta mezza in inglese e mezza in italiano, come farà per la maggior parte dei brani della serata. Anche That Summer Feeling, uno dei suoi “classici” degli anni Ottanta, viene purtroppo guastata dal bilinguismo. E non può mancare la sua “pasoliniana” In che mondo viviamo, indirizzata alla nostra “stupenda e misera città”. A un certo punto fa la sua comparsa il riff immortale di Egyptian Reggae, ma purtroppo dura poco, è solo un accenno da un paio di minuti. Qua e là Jonathan abbandona la chitarra cantando a cappella e percuotendo un campanaccio, e poi come di consueto fa qualche passo di danza: alla Thom Yorke, potrebbero pensare i più giovani non sapendo che quello è sempre stato il suo stile. C’è molto cabaret, insomma, e sono ormai quasi del tutto assenti i riferimenti a Boston e New York che facevano costantemente capolino nelle prime canzoni di Richman. Con l’unica eccezione (ed è il punto più alto della serata) di una nuovissima canzone, gustosissima, dal titolo Bohemia, in cui Jonathan rimembra i tempi in cui andò da aspirante (e pretenzioso) bohemién a studiare arte all’Università di New York nei pressi di Harvard Square, e nella sua tipica modalità autoironica racconta: “The New York hipsters saw me standin’ there / and they knew this young man was looking for the door / to Bohemia / There I was standin’ in the square, pretentious artwork folio / but they knew I had to find the way / to Bohemia”. E’ un flash di brillantezza che rimanda al “vecchio” Jonathan Richman, quello di fine anni 70 e degli anni 80. Di breve durata, però, dato che viene seguita da un brano in stile flamenco cantato in spagnolo (presumibilmente dal l’LP per il mercato ispanico del 2008 ¿A qué venimos sino a caer?) e da una Let Her Go Into The Darkness inframmezzata da tante, troppe divagazioni in italiano. Chiude infine, Jonathan, dopo un’oretta scarsa di concerto, con il brano forse migliore dell’ultimo album O Moon Queen Of Night On Earth (2010), These Bodies Came To Cavort. Jonathan: “Come si dice in italiano “contort”"? Membro del pubblico: “Contorcersi”. Jonathan: “Ah che bello. E’ quasi uguale”. Praticamente, un siparietto alla Fabio Fazio.
E chissà. Forse ha contato qualcosa il fatto che fosse un concerto “rimediato” all’ultimo momento. Ma la mente non può fare a meno di riandare a quella sera di tanti anni fa in un PalaEur semideserto, quando un poco più che trentenne Jonathan Richman ipnotizzò le poche (non oltre cinquanta) ma devote anime che erano venute a vederlo, con le sue storie della Fenway di Boston, della New York dei Velvet Underground e dei suoi nuovi tremendi vicini di casa a Los Angeles, trasportandoci di fatto in un altro mondo grazie solo alle sua sei corde, alle sue doti di narratore e di showman e al suo impagabile humour pazzoide. Alla Casa Clementina quella magia non si è ripetuta ma, vabe’, bisognerà comunque riandare a vederlo se dovesse tornare. In fondo non si sa mai e certe cose vanno fatte e basta. Così: nella speranza.
Articolo del
13/03/2012 -
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