|
Mi piacerebbe partire dalla fine, da quel “Chiara, nice to see you, let's sit down” detto mentre mi indica uno dei banchi all'estremità della chiesa. Già, proprio lui, proprio quel lato del pentagono dagli occhialini tondi che rendono il suo volto ancora più affabile. In quell'angolo intriso di spiritualità, i ruoli si sarebbero invertiti e io avrei finito col confessarmi; dall'altra parte Renbourn sarebbe riuscito a strapparmi la promessa di farmi risentire. Un finale inatteso, che per l'ennesima volta mi ha fatto rimpiangere il non essere nata diverse decadi fa, per poter vivere e respirare appieno quel grande sogno - che ha attraversato trasversalmente diversi generi musicali – che si è realizzato tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta. In questa chiesa a nord di Londra, dedita all'aiuto materiale del prossimo e alla salvaguardia dello spirito di ogni comune mortale attraverso la musica, dovrò “accontentarmi” di una meravigliosa cartolina, affascinante proprio per il suo innumerevole carico di storie.
Il concerto si apre con Wizz Jones, chitarrista e cantautore che collaborò a lungo con Renbourn e l'indimenticato Bert Jansch. Jones, con la sua voce modellata a meraviglia dal tempo, alterna brani propri (Lucky The Man) con cover che ritaglia su misura per sé (Black Dog dei Babe Ruth). Williamson e Renbourn, rispettivamente all'arpa (ma anche mandolino, una piccola serie di flauti e una grancassa) e alla chitarra acustica, prendono posto sulla scena poco prima della fine del primo tempo, dando inizio ad una vera e propria immersione in quel mondo magico dove il folk riabbraccia chi gli ha dato la vita: il blues. Non mancano i classici di Renbourn (Can't Keep From Crying, Great Dreams From Heaven), che in alcuni casi vengono sublimati dal flauto di Williamson, come nel caso della bellissima versione di South Wind, che dalle atmosfere misty(che) e contemplative delle armonie di John, sfocerà in una liberatoria e spensierata melodia dal profumo irlandese. Se i numerosi strumentali risvegliano l'immaginazione, andando a dipingere paesaggi che profumano di eterna bellezza; l'originale cover di Bob Dylan (This Wheel's On Fire), ci riporta immediatamente nella realtà, traghettandoci verso quello strappo dell'animo che tanto ci è caro. Non è mancato Bob Dylan e non sono mancati nemmeno il blues di Clapton con Going Down Slow, e il padre di tutti: Jerry Lee Lewis; la sua Lord I've Tried Everything But You vede Williamson alle prese con un arrangiamento per arpa molto blues, tanto affascinante quanto inusuale.
Avremmo passato tutto il resto della notte ad ascoltare queste storie, storie di blues, di quelle radici che ancora continuano a camminare in barba a chi crede che la musica stia morendo, o peggio ancora, che già lo sia. C'è una forte nostalgia per quegli anni che sono stati davvero anni fatati, ma il blues non è solo un genere, è un approccio alla vita e allo stesso tempo è anche un afflato destinato a durare in eterno, restando immobile nelle sue mutevoli forme; questo pensavo mentre una bella parte di storia della musica continuava a raccontarmi in musica del triste epilogo di Omie Wise. “Oh, listen to my story...” questo è il blues.
Articolo del
25/04/2012 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|