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C’è una sottile linea folk che unisce la cupa disperazione di Nebraska, disco totalmente acustico registrato in casa con un Tascam 4 piste, e pubblicato da Bruce Springsteen nel 1982, e Wrecking Ball, il suo nuovo lavoro uscito da poche settimane. Trent’anni fa Nebraska raccontava un’America “sommersa”, celata ma neanche troppo, dietro le quinte delle luci e dei lustrini dell’era reaganiana, che abbagliavano e nascondevano a fatica le ferite di un paese reale che realizzava quasi fatalmente la propria disillusione, e finiva col riversarsi lungo le strade della propria disperazione, una disperazione omicida, quasi senza senso, ma carica paradossalmente di significato per chi avesse avuto voglia di prestarle ascolto. Quei racconti in bianco e nero segnavano un passaggio decisivo nella carriera e nella discografia di Springsteen, mostrandone il lato folk, senza remore e senza filtri, per quanto ancora acerbo e istintivo. Un anno prima, durante i suoi concerti del The River Tour, era stato lui stesso a raccontare al pubblico di essere rimasto colpito dalla lettura di un libro: Woody Guthrie: A Life, che raccontava la storia del grande folksinger, per poi eseguire una versione toccante del capolavoro This Land Is Your Land. Era così che cominciava a (ri)appropriarsi di quel grande patrimonio di tradizione, storie e racconti in musica: il folk americano.
Qualche anno dopo quell’identità scoperta, suggeriva a Bruce di scrivere con The Ghost Of Tom Joad, l’aggiornamento di quel film, di quelle storie: la disperazione sull’orlo della follia diventa il baratro del nuovo ordine mondiale, il miraggio del confine, un “oltre” che può essere il passaggio di una frontiera, la speranza di una nuova vita, o il destino amaro e fatalmente liberatorio del passaggio da una esistenza amara, dolorosa, impossibile, alla morte. Il fantasma di Tom Joad riannodava i fili lasciati scoperti da Nebraska, riassumeva il racconto di Steinbeck e il film di John Ford, in una tela che musicalmente si allargava rispetto al caustico intimismo di Nebraska, con arrangiamenti più elaborati, un folk a tinte sempre tenui ma più dense. Circa dieci anni più tardi Springsteen, nel 2005, sentiva ancora l’esigenza di raccontare i nuovi tempi terribili della sua America, con Devils And Dust, che veniva subito dopo l’ennesimo arrogante tentativo a stelle e strisce di importare la democrazia a suon di bombardamenti, in Iraq. E se il cantastorie si era ormai impadronito dei mezzi lirici ed espressivi, per raccontare un paese arrogantemente allo sbando, un paese sempre meno convinto dei propri doveri (“Ho il dito sul grilletto, ma non so di chi fidarmi”, Devils And Dust), la realizzazione in musica di questo sentire lasciava spazio a qualche debolezza, che ne facevano un disco riuscito solo in parte.
Oggi con Wrecking Ball, il percorso trova nuova linfa, nuova energia, e Bruce Springsteen lo fa provando ad aggiornare il linguaggio folk degli episodi precedenti, facendo tesoro di un altro episodio decisivo, quel We Shall Overcome - The Seeger Sessions che nel 2006, rappresentava, seppure con l’ausilio del repertorio di Pete Seeger (per quanto in diversi episodi completamente ri-arrangiato, quasi da potersi dire brani autografi dello stesso Springsteen), il recupero del tesoro musicale di tutta una tradizione folk profonda, con culla e natali a New Orleans. Wrecking Ball è quindi un disco folk che sviluppa tutti questi temi, li attualizza, nel suono, nella stesura lirica, anche nell’approccio. E’ un disco folk, lo è nello spirito, nelle liriche, nel racconto, lo è anche nella scrittura di suoni e arrangiamenti, anche se l’uso di campionamenti, dei cori, il mix di rap e gospel, possa farlo sembrare tutto tranne un disco folk. Perchè è un folk moderno, aggiornato appunto ai nostri tempi. Si sentono campionamenti e drum machine, non si sentono se non a sprazzi, atmosfere acustiche con fisarmonica, violino e banjo.... ma nonostante tutto, credeteci, è folk nell’anima.
Bruce veniva da due episodi sfocati dopo la bella avventura con la Seeger Sessions Band: Magic che raccontava l’America che si risvegliava dall’illusionismo e dai trucchi di Bush jr., e Working On A Dream che invece segnava la nuova stagione della speranza in Obama, disco prevalentemente pop, e da una produzione che in entrambi gli episodi faticava a far emergere un suono da E Street Band. Così in questo caso, presa la decisione di affidarsi ad un nuovo produttore (Ron Aniello), Bruce sceglieva di non coinvolgere se non in minima parte la E Street Band, e di realizzare questo disco quasi da solo, pur con diverse collaborazioni. E’ forse anche per questo, per questa genesi “solitaria”, che Wrecking Ball si riallaccia al filone folk di cui si è detto.
Il singolo di apertura, quella We Take Care Of Our Own, subito equivocata in quello sventolare, in realtà senza alcun orgoglio, della bandiera americana (che ricorda l’altro storico equivoco della discografia springsteeniana, l’anti-inno Born In The U.S.A.) lascia presagire un incedere rock tinto di pop, ma la rabbia che schiuma dal testo, e una produzione che finalmente valorizza certe dinamiche sonore, evitando l’effetto “iper prodotto” dei dischi più recenti , portano subito su altri territori, su altre trame, su altri livelli di lettura. C’è New Orleans (il riferimento al Superdome, dove si rifugiarono molti senza tetto, dopo l’uragano Kathrina), e quindi c’è l’anima profonda di un’intera nazione, abbandonata a sé stessa, una città come simbolo di un’America disillusa, che non vede più e non sente più “un amore che non mi abbia tradito”. Quel ritornello gridato ripetutamente, “We take care of our own”, al quale manca il “Do” interrogativo davanti per esprimerne il reale significato (ma noi, ci prendiamo cura di noi stessi? Di quanto ci appartiene? Di quanto sentiamo nostro? perchè in una tragedia come quella di Kathrina non l’abbiamo fatto...) o almeno uno dei possibili, quel “dovunque sventoli questa bandiera” sono i segnali della delusione che affiora, di un Paese ancora una volta costretto ad aggrapparsi alle proprie radici alla propria anima profonda. Ecco perché il baldanzoso arrembare di Easy Money, nasconde tra pieghe spensierate (“tu porta fuori il cane, io porto fuori il gatto”) una pistola che potrebbe ereditare la stessa furia di Nebraska, seppure con una consapevolezza diversa (“Ho una Smith&Wesson calibro 38, ho il fuoco dell’inferno che brucia e ho un appuntamento, dall’altra parte del fiume”).
Una consapevolezza che diventa fare i conti con la realtà e con il sopravvivere di tutti i giorni. La ballata Jack Of All Trades racconta così il “tuttofare” che si barcamena per restare vivo, facendo appunto qualsiasi cosa. Livido il racconto, cantato da Springsteen, come spesso in questi casi, senza alcuna retorica, senza enfasi. L’arrangiamento qui spicca per un’essenzialità che si tinge della tromba e dell’incedere quasi da banda che si apre in uno squarcio lirico disarmante nel solo dell’ospite Tom Morello, dei Rage Against The Machine, bravissimo a non strafare e a calarsi invece nel pezzo con grande feeling. Ma anche Jack Tuttofare ha un tarlo che lo affligge e che lo avvicina alla follia omicida di Nebraska “Se avessi una pistola, troverei quei bastardi e gli sparerei a vista... sono Jack, il tuttofare, tesoro, e andrà tutto bene”. Se quei bastardi, nella visione di Nebraska erano ombre senza nome e senza identità e più diventavano alla fine le proprie ombre interiori, i propri fantasmi, la propria anima reduce da mille Vietnam, questa volta non è così.
Wrecking Ball è un disco che schiuma rabbia, ma stavolta il quadro è più maturo, consapevole. Bruce prende spunto proprio da quel Woody Guthrie da dove tutto, anche la sua consapevolezza folk e americana, avevano preso spunto: “Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore sempre più magro. Tutto è già successo e tutto riaccadrà”. E’ la disarmante presa di coscienza: “Riaccadrà, scommetteranno la tua vita”. Jack Of All Trades è densa di citazioni da Woody, forse ne ricalca anche l’immagine umana, come nel film Bound For Glory, dove al di là della mitizzazione ai limiti dell’esagerazione, Guthrie appare a tratti proprio come il tuttofare che cerca di sbarcare il lunario. E in tutto il disco riecheggiano potenti i racconti del maestro.
La cassa in 4 che apre Shackled And Drawn, una sorta di canto da lavoro, è il preludio ad un brano sulla fatica, sul sudore, sul dovere che si fa soddisfazione, gioia del proprio mestiere. Cantato con la rabbia e la voce graffiante che ricordavamo e che si era persa un po’ negli ultimi dischi (ma che era rimasta intatta nei live). “Ho sempre amato la sensazione di sudore sulla mia maglietta. Fatti da parte, figliolo, e lascia che lavori un uomo”: questo potrebbe essere un verso di Woody Guthrie. E forte, fortissimo è il richiamo e l’appello a questa America, a questa disarmante di oggi.
In Death To My Hometown, l’andatura è trascinante, da festa irlandese, ma nelle parole c’è tutt’altro che festa, al massimo c’è rabbia: “Hanno distrutto gli stabilimenti delle nostre famiglie e si sono presi le nostre case. Hanno lasciato i nostri corpi sulle pianure, gli avvoltoi si sono presi le nostre ossa. Quindi ascoltami, ragazzo mio, stai pronto per quando arriveranno. Perché ritorneranno è sicuro come il sole che sorge. Ora preparati una canzone da cantare e cantala forte fino a che tutto non sarà finito. Sì, cantala chiara e forte. Manda i capitalisti senza scrupoli dritti all'inferno (...) Coloro che ora percorrono la strada da uomini liberi Ah, hanno portato la morte nella nostra città, ragazzi”. C’è tutto in queste sei righe: c’è la speranza e il futuro perduti, c’è la morte, ci sono gli altri, quelli che hanno portato morte e distruzione, hanno un nome un volto, uomini d’affari senza scrupoli, senza dignità, c’è una canzone da scegliere e da cantare, da cantare fino alla fine. Qualcuno ha portato la morte nella nostra città. Ma c’è ancora questa canzone da cantare.
Ne esce fuori un’America delusa nell’anima, delusa da sé stessa, dai propri errori, dai propri fallimenti. La palla demolitrice che dà il titolo è una metafora magistrale. Scritta per commemorare il Giants Stadium, lo stadio dei Giants, appunto, prima della sua demolizione nel 2009, in realtà rappresenta proprio in quel teatro di mille campioni che ci son passati sopra, tra i ricordi del campo di gioco, proprio l’America da demolire per essere ricostruita. Come lo stadio. L’America da buttare giù per poter rinascere.
Inevitabile in molti passaggi del disco, un neanche troppo velato riferimento alla delusione per una presidenza, quella di Obama, che avrebbe dovuto, nelle aspettative, segnare una nuova epoca nella storia americana, e che forse alla resa dei conti ha fallito nei suoi intenti. L’America da demolire, forse è già macerie, anche se non sembra. E’ quel terreno roccioso che ricopre tutta la scena di Rocky Ground, forse il brano più straniante, proprio perché mescola il classico Springsteen (il giro di accordi alla One Step Up, ad esempio) con un drum machine continuo, la tromba desolata e solitaria, e un campionamento vocale dai nastri di Alan Lomax, fino all’inserto rap affidato alla voce di Michelle Moore, che ha fatto storcere il naso ai puristi, ai più integralisti fan del Boss. Eppure in questa sua commistione di linguaggi, sta la bellezza di un brano che dietro gli evidenti riferimenti biblici, rivela la delusione dietro la fede tradita, la promessa infranta sotto un cielo clamorosamente vuoto: “Cresci i tuoi figli e gli insegni a camminare dritti e sicuri. Preghi che i tempi duri, i tempi difficili, non ritornino più. Cerchi di dormire, ti agiti e ti rigiri, il fondo si sta abbassando. Dove una volta avevi fede, ora c'è solo dubbio. Preghi per una guida, ora solo il silenzio incontra le tue preghiere Giunge il mattino, ti alzi ma non c'è nessuno”.
Il rocker Springsteen non ha perso però, del tutto la speranza, e ha ancora voglia di raccontarla, di suonarla e di cantarla. Ha perso invece un grande amico, l’amico di mille avventure sul palco, intorno al palco, verso il palco, e lontani dal palco. E’ Clarence Clemons, sassofonista leggendario della E Street Band, scomparso il 18 Giugno dello scorso anno, e che viene ricordato con la sua ultima performance in studio, proprio in quella Land Of Hope And Dreams che, scritta nel 1999, pubblicata sul Live In New York del 2000, viene immortalata in Wrecking Ball, in una versione in studio bellissima, con una intro di batteria in controtempo e di cori, e che rappresenta il momento di più positiva speranza di tutto il lavoro. Rabbiosa, ma sempre speranza.
Il suggello finale è affidato ad un altro canto dove il folk si veste di storia. We Are Alive, siamo vivi. Ed è una storia di lotte e di lavoratori: i ferrovieri uccisi nel Maryland, nel 1877, o ancora le piccole vittime innocenti, uccise da una bomba a Birmigham, in Alabama, nel 1963, “Siamo vivi. E anche se i nostri corpi giacciono solitari qui nell'ombra. I nostri spiriti si risolleveranno per portare il fuoco e accendere la scintilla. Per resistere spalla a spalla, cuore a cuore”. E’ ancora un tempo in due, condito da tutta la lezione folk americana: chitarre, banjo, violino, fiati, e quella tromba che sale sommessa fino a prendere la scena e citare apertamente la Ring Of Fire di Johnny Cash. E’ la memoria di tutti, operai e musicanti, perdenti e truffatori, santi e peccatori, ladri e puttane, di chi ce l’ha fatta e di chi ha perso tutto, ma almeno ci ha provato. Sono tutti vivi, siamo tutti vivi se siamo pronti a resistere, spalla a spalla, cuore a cuore.
Wrecking Ball, quindi non è Nebraska, e non lo è innanzitutto perché non lo può essere, a distanza di trent’anni. Ma se quell’America, inconsapevole e spaesata, sparava perché c’era “troppa meschinità in questo mondo”, uccidendo innanzitutto sé stessa, oggi Wrecking Ball è il ritratto di un paese che prova a scrollarsi di dosso la propria paura, anche la paura di puntare il dito, di ammettere di avere sbagliato, il proprio nulla, tutti i propri fantasmi. La rabbia c’è di nuovo, c’è ancora. Ma questa volta non siamo più sopra l’auto oltre il cui parabrezza si intravede tetra desolazione, come nella cover di Nebraska. Questa volta sta passando un treno (Land Of Hope And Dreams), l’America può salirci sopra e in mezzo a tutto questo nulla, tornare a cercare il sogno e le speranze, in questa terra di speranza e sogni.
Articolo del
09/05/2012 -
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