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Dimensioni modeste, ma entusiasmo alle stelle per il battesimo di fuoco degli Shinedown. Al loro debutto live in terra italica con l’appuntamento milanese del fortunatissimo Amaryllis Tour 2012, i rockers della Florida trovano ad attenderli un locale, i Magazzini Generali di Milano, contenuto e raccolto, e una falange sparuta ma agguerritissima di affezionati da tutta Italia, dal Salento alla Brianza. Due ore e mezza abbondanti di attesa immersi in un’afa disumana non bastano a fiaccare gli elettrizzati Shinedowners, che si dimostrano, oltre che coriacei, mostruosamente preparati sulla band e sui testi da cantare (un po’ meno sugli ormai imminenti esami di maturità, come non tarda ad emergere dalle preoccupatissime conversazioni pre-concerto).
Amaryllis, che ha fatto fuoco e fiamme nelle classifiche USA (4° posto e record di vendite a una settimana dall’uscita), è il quarto album degli Shinedown e indubbiamente il più posato, maturo e completo. I suoi tre predecessori, Leave A Whisper, Us And Them e The Sound Of Madness, ruvidi ma incredibilmente potenti e dinamici, non gli hanno affatto semplificato la vita, anzi: i soliti scetticoni (tra i quali si auto-ascrive anche la sottoscritta, rea confessa di alcune riserve avanzate in sede di recensione) hanno subito diffidato dell’immenso potenziale radiofonico di Amaryllis, interpretandolo come una concessione della band ad un sound più appetibile, a discapito delle asprezze alternative-hard rock dei primi album. Mea culpa: questo è uno dei rari casi in cui “musicale” (e best-seller, per inciso)non fa rima con “commerciale”, ma sta ad indicare la MUSICA, nella sua accezione più autentica, quella di bellezza, emozione, e immutata forza. Solo che bisogna sbatterci il naso di persona, dal vivo e non su MP3, per convincersene. Ammorbidimento? Strategia? Al diavolo, provate a mettere su un palco questi quattro e vi basteranno pochi secondi per rendervi conto dell’assurdità di tutto ciò.
L’unico rammarico (ebbene sì, siamo incontentabili) è che rimarranno a bocca asciutta quanti avevano sperato nell’antipasto offerto dall’abbacinante, per bellezza e talento, Lizzy Hale, e dai suoi scatenati Halestorm. Stasera non potremo apprezzare né lo sguardo maliardo di Elizabeth, né il suo ancor più strabiliante duetto con Brent Smith in Breaking Inside. In compenso, sempre dagli USA, gli Shinedown si sono portati gli sconosciuti, dichiaratamente devoti e debitori d’ispirazione, Stellar Revival. Niente male, a dire la verità: con un album in uscita a breve negli Stati Uniti, questi Crazy Ones si guadagnano la fiducia e il sostegno del pubblico, nonostante un sound ancora da affilare e gli ammiccamenti e gli sculettamenti un po’ eccessivi del cantante in direzione di spettatrici di tutte le età e di tutte le fogge. Ragazze, rassegniamoci: in fin dei conti, so’ ragazzi, e pure rockstar, seppur solo aspiranti.
A differenza loro, Brent Smith, Zach Myers, Barry Kerch ed Eric Bass, rockstar affermate lo sono ormai da tempo, e avrebbero teoricamente superato la fase in cui sul palco sei costretto a sciamannarti il doppio per far sì che qualcuno tra il pubblico accenni almeno ad un timido headbanging o ad un discreto saluto “cornificato”. E’ vero che in Italia il nome Shinedown rimane ancora relegato al panorama underground, e non evoca di certo folle oceaniche e deliri collettivi. Ma quando un artista dà il massimo, sempre e comunque, ecco che la magia riesce ancora una volta, e il calore del pubblico arriva di conseguenza, senza ostacoli. I nostri, del resto, dimostrano di sapere bene cosa ci si aspetta da loro, e infatti piazzano subito i carichi da 90 in apertura: il beat poderoso che introduce The Sound Of Madness equivale all’immortale “Al mio segnale, scatenate l’inferno” (Il Gladiatore docet) per i fans, per non parlare dell’irresistibile Boom-Lay, Boom-Lay, Boom, esplosivo non solo nell’onomatopea, di Diamond Eyes. Ecco svelata l’arma segreta dei grandi Shinedown, il punto di fusione perfetto tra una rocciosità degna dei più duri metallari in circolazione e quei cori, tanto semplici nella struttura quanto grandiosi nel risultato, che quasi ti danno un senso di invincibilità a cantarli a squarciagola.
Per cantarli come si deve ci vorrebbe pure l’ugola di Brent al suo meglio; sfortunatamente i Magazzini sono tristemente noti per un’acustica che va dal mediocre all’infame, a seconda del genere proposto, e l’asso nella manica della band ne risulta un po’ penalizzato. What A Shame, verrebbe da dire, tanto per citare il titolo di una delle loro celeberrime ballad. Dal punto di vista strettamente tecnico, l’esecuzione complessiva è nettamente migliore nei brani un po’ più dolci e melodici, come If You Only Knew, The Crow And The Butterfly, 45: stabilire quale sia la più bella del reame è impresa ardua, anche perché qui viene fuori la capacità degli Shinedown di mettere in musica qualunque sentimento, dall’amore alla rabbia, dal rimpianto alla disperazione, con un punto di vista particolare, disincantato, a tratti anche ironico. Mai banali, mai scontati, hanno sempre qualcosa di diverso dagli altri da dire. Qualcosa che riguarda loro stessi, per come sono veramente, e la vita, che è dura e imprevedibile (e se non lo è, diciamocelo, è una bella rottura di scatole). Questa acutezza nello scrutare l’animo umano si esprime al meglio quando abbandonano temporaneamente il loro caratteristico “tiro” hard rock, per dedicarsi a ballad intime e sofferte, dal retrogusto decisamente roots: non a caso, il momento più toccante dell’encore è costituito da Simple Man, eseguita in chiave acustica da Brent e Zach Myers, con il pazzoide Bass e il granitico Kerch momentaneamente a riposo. E’ vero che i legittimi proprietari sono i Lynyrd Skynyrd, ma gli Shinedown hanno saputo farla loro, rendendola, se possibile, ancora più bella dell’originale.
Altri cavalli di battaglia come Save Me e Devour si alternano alle nuove canzoni, insospettatamente forti nell’esecuzione dal vivo. E’ soprattutto in queste ultime, infatti, che viene fuori una nuova caratteristica del songwriting degli Shinedown: un approccio meno individuale e più universalistico, attraverso il quale sembrano cercare un contatto diretto, una vera connessione emotiva con l’audience. E, ça va sans dire, ci riescono alla grande: come si fa a non lasciarsi prendere la mano quando Brent ti incita a cantare con quanto fiato hai in gola un ritornello come: Put your hands in the air, if you hear me out there, I’ve been looking for you day and night/ Shine a light in the dark, let me see where you are, ‘cause I’m not gonna leave you behind / If I told you that you’re not alone, and I showed you this is where you belong, put your hands in the air, one more time?
Ecco perché adesso li amiamo ancora di più: li abbiamo trovati cresciuti, più consapevoli, si dimostrano grandi performer senza mai dimenticare che, una volta scesi dal palco, sono uguali a tutti noi, fragilità e momenti di sconforto compresi. Amano raccontarsi, renderci partecipi, si vede: e noi, finita Fly From The Inside che chiude il concerto, li aspettiamo a braccia aperte, pronti a replicare.
Articolo del
08/06/2012 -
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