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Apro il cartonato del cd che con infinita fatica – vista la mia dannata riservatezza - mi sono portata in giro a fine concerto, nella speranza di vederlo pieno di eterogenee calligrafie. Lo guardo bene, lo leggo attentamente. “Hi Chiara! Love from Ric”, “To C. from D. much love”, “To Chiara with Love, Chris”. Leggo, rileggo e poi penso che è stato esattamente questo il sentimento che ho percepito per tutto il concerto, un immenso flusso di amore. Una volta arrivata a casa apro lo splendido libro di Pete Frame all'altezza del capitolo intitolato Resolving The Fairport Convention Confusion, due pagine di fitti schemi e spiegazioni che spiegano le evoluzioni di questo gruppo che è stato una vera e propria fucina di idee, guizzi creativi e musicisti eccellenti. Questa è stata la mia prima volta ad un loro concerto e coincide con l'ultima formazione descritta da Frame, nello specifico, alla loro quindicesima mutazione; l'ultimo tassello, alla fine della seconda pagina del capitolo. Il loro passato per me è un irresistibile gioco di immaginazione.
Dispiace essere arrivata così tardi, dispiace essersi persa gli anni della “splendida inconsapevolezza”. Quando Simon Nicol introduce Fotheringay e disperde nell'aria un bacio per Sandy, il tempo che separa l'oggi da quel 1969 sembra palesarsi in tutta la sua pesantezza. Eppure quegli occhi, tutti quegli occhi sul palco, sembrano conservare la stessa brillantezza di “splendida inconsapevolezza” degli inizi; forse non è un caso che il concerto sia iniziato con la galoppante Walk Awhile. Il percorso continua e quasi si fatica a restare da questa parte del palco, si vorrebbe salire su e contribuire a portare avanti quella che è una vera e propria tradizione, perché i Fairport Convention non si limitano ad essere una “semplice” pietra angolare della storia della musica; i loro album hanno dipanato i fili di un sentimento che, oggi più che mai, contribuisce a far sentire l'ascoltatore della prima ora, così come il giovane ragazzo al primo approccio con il folk elettrico del gruppo, parte di una grande famiglia. Quella voce che ogni tanto non regge e scivola un mezzo tono sotto, il suono di una nota sbagliata, non disturbano l'orecchio ma ne innalzano la genuinità dell'attitudine live della band. Ancora oggi i Fairport si divertono sul palco, tra strumentali e momenti di estrema dolcezza, come l'armonizzazione della splendida Farewell, Farewell, o l'avvolgente violino di Crazy Man Michael. Ogni canzone viene introdotta: storie dall'Inglilterra vittoriana, come i due estratti da un album germinale come Babbacombe Lee, la toccante Cello Song durante la quale si fatica davvero a trattenere la commozione e Wake Up John (Hanging Song); tante ballate che aprono una finestra sulle atmosfere di un Inghilterra oscura e malinconica.
Questo concerto, che canzone dopo canzone, prende sempre più le sembianze di un “distaccato abbraccio collettivo”, profuma di vera aggregazione; è il modo perfetto di intendere il vivere la musica. Tutto quell'amore che leggo e rileggo sul cartonato del cd, non è un termine messo lì a caso, inconsistente come buona parte degli autografi (poiché privi di una reale conoscenza reciproca di base); questo amore è un messaggio e un attitudine che questi meravigliosi signori dagli occhi pieni di vita, portano avanti dal primo giorno in cui hanno deciso di percorrere la loro strada in compagnia di uno strumento musicale. “Walk awhile, walk awhile, walk awhile with me; the more we walk together, love, the better we'll agree”.
Articolo del
11/06/2012 -
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