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Qualche giorno fa mi è capitato di visitare un negozio di dischi in centro e ho fatto caso che i cd di Peppe Parra si trovavano sotto la dicitura di “musica regionale”. Tale definizione mi ha un po’ disturbato, ma senza un perché. Ho pensato che forse dipendeva dal fatto che molti suoi album sono cantati in napoletano, quindi ci poteva stare. E invece no, stavo cadendo anche io nello stesso errore di chi cataloga, di chi suddivide, o almeno ci prova, i generi musicali, senza tenere conto del valore e delle dimensioni di un singolo artista.
Assistere ad un recital di Peppe Barra infatti è un’esperienza totale, che coinvolge tutti, a prescindere - come diceva Totò - dalle regioni, dai localismi e dai dialetti. Dialetti? E perché? Il napoletano non è mica un dialetto - come ha spiegato Barra verso la fine dello spettacolo - è una lingua E poi, per dirla tutta, Peppe Barra, non è mica napoletano. No perché, lui è di Procida e ci tiene a sottolinearlo e lo ripete incessantemente durante le sue esibizioni dal vivo, dialogate, cantate, calde in un fluire di emozioni che vanno dal divertimento alla passione amorosa, da una facezia ad un canto di dolore, che raccontano storie, fiabe, sogni e visioni, ma che richiamano anche realtà sociali vere e difficili, senza retorica, senza lacrime facili. Compassione, questo sì, è la parola giusta, è questo quello che porta alla mente una performance di Peppe Barra, artista a tutto campo, personaggio disincantato e al tempo stesso profondo che porta al massimo dell’espressione la forma del Teatro Canzone, che fu cara anche a Giorgio Gaber. Non a caso una delle prime canzoni ad essere eseguite dal vivo questa sera, per la diciannovesima edizione del Festival di Villa Ada, è proprio Lo shampoo, un bellissimo blues urbano che porta la firma di Gaber e che è stato inserito da Peppe Barra su Ci vediamo poco fa, il suo album più recente. Lo accompagnano sulla scena quei musicisti che lo seguono in tour praticamente da sempre e che lui si affretta a presentare al pubblico come “maestri”. Si tratta di Paolo Del Vecchio, alla chitarra acustica, Luca Urciuolo, alla fisarmonica, Sasà Pelosi, al basso, Riccardo Veno, ai fiati e Ivan Lacagnina alle percussioni. Una band affiatata e di talento che asseconda i diversi momenti di uno spettacolo che alterna canzoni e poesia, monologhi e riflessioni, ma non dimentica mai le armonie mediterranee. Brani come Pigliate una pastiglia, Piccerè e Lu vasillo, letteralmente “piccolo bacio”, una nuova edizione di una vecchia canzone napoletana della metà dell’800, incarnano l’anima della cultura popolare, danno riconoscimento e dignità al Sud, ma sono universali, come il Super Attack, e fanno presa nei cuori di chi abita a Roma come di chi vive nel Lombardo-Veneto. Sono rivisitazione in chiave moderna di un linguaggio tradizionale di cui Peppe Barra vuole essere il depositario, in nome della sua Partenope, della sua Napoli, anche se è di Procida... Straordinaria poi l’esecuzione di un testo tratto da Divertimento di Raffaele Viviani , scrittore e poeta, che tesse l’elogio della Speranza, il bene più forte, che ci rende simili alla “terra che aspetta l’acqua per non morire”. L’uso della voce di Barra ha un qualcosa di magico, un dono del Cielo: sa essere stridula, sarcastica e irriverente, ma repentinamente diventa dolce, tenera e fanciullesca. Lui, figlio d’arte, di Giulio e di Concetta Barra - che ricordiamo con la Nuova Compagnia di Canto Popolare e in La Gatta Cenerentola nel periodo più fortunato del folk revival - dedica alla mamma una canzone d’amore, una invocazione alla Madonna, un inno sofferto che contiene un’adorazione vera, frutto di una religiosità antica, mai negata o messa da parte. Un minuto dopo Peppe ha già cambiato registro: racconta delle favole, come La torta di Giambattista Basile, o storielle romantiche e divertenti come Idillio ‘e merda, una improbabile storia d’amore fra una cacata solitaria e uno stronzo. Ebbene, quello che sulla bocca di qualsiasi artista di cabaret sarebbe volgarità, con Barra si trasforma in poesia, la stessa a cui ricorre per ricordare come un fanciullo innamorato è come un uccellino che si precipita a raccogliere le briciole di pane che lei, la sua amata, gli getta dalla finestra. Il concerto si conclude con una bella esecuzione della Tammuriata Nera di Mario Nicolardi che ricorda la fine della Seconda Guerra Mondiale con la città di Napoli, letteralmente invasa dalle truppe americane che familiarizzano, anche molto da vicino, con la popolazione locale, in particolare con quella femminile....
Invocato dal pubblico a tornare in scena, Peppe Barra ci regala una bella versione di Profumi e balocchi, straordinario remake di una celebre canzone italiana degli anni Quaranta, quindi ci saluta e ci lascia con una sensazione di soddisfazione e di pienezza che raramente capita di avvertire. Quasi meglio di un rock show vero e proprio, una di quelle rare occasioni dove la parola si mette in contatto con l’anima e insieme donano al pubblico emozioni e vita ad ampio raggio, senza vergogna, senza alcun ritegno.
Articolo del
22/06/2012 -
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