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Arriviamo all'ora del tramonto romano, spettacolare già di suo, ancor più nella cornice dell'Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano, al Villaggio Olimpico del quartiere Flaminio, a un passo dal Palazzetto dello Sport di Luigi Nervi e dal MAXXI dell'architetta anglo-irachena Zaha Hadid: quanto di meglio l'architettura dell'ultimo mezzo secolo abbia donato a Roma. È il terzo anno del Festival Meet In Town, ci pare di ricordare. Questa volta il palco – altissimo, forse per evitare gli assalti dell'anno scorso – dà le spalle alla Cavea, per lasciare un'ampia pista da ballo alle migliaia di persone che accorrono, quest'anno anche in numero maggiore di quello precedente.
Si inizia con l'immenso – in molti sensi – Afrika Bambaataa, per noi una leggenda che ci riporta ai primordi dell'hip hop, con i sound system per la strada, attaccati all'elettricità dei pali della luce, nel passaggio tra i '70s e gli '80s, agli albori della graffiti art, nella New York narrataci da Jonathan Lethem di The Fortress of Solitude: Play that Funky Music! E oltre trent'anni dopo Afrika Bambaataa ancora “spacca”, mischiando Public Enemy, Kraftwerk e old school.
Contemporaneamente inizia il Foyer Petrassi, vero e proprio antro che nella notte diverrà clubbino di Detroit con il delirio del B2B di Theo Parrish e Marcellus Pittman; ma ora c'è il saggio folletto Marco D'Aquino aka Dukwa, giovanissimo e piccoletto dal beat potente e perfetto, sporcato verso il future dubstep. Ci piace e siamo convinti di ritrovarcelo in qualche serata europea, il prossimo anno.
Ora è il momento del fenomeno Squarepusher alla Cavea: ne abbiamo parlato assai e lo aspettavamo con un notevole entusiasmo; siamo sottocassa in venerata estasi, braccia alzate quasi tutto il tempo, a invocare le sue di urla e di mani, che prontamente impone su di noi. Con indosso il casco di LED e il palco invaso da LED è un spettacolo, come ce lo immaginavamo! Solo le casse non ci sembrano potenti al punto giusto e un nostro vicino, insistentemente, urla: “Accendi le casse!” e non gli si può dar torto, a questo pubblico giustamente esigente e arditamente coatto, al tempo stesso. La performance di Squarepusher fila via sull'orlo permanente del rumorismo: è un gioco a spezzare qualsiasi fomento eccessivo; controtempi e rumori invadono tutti i pezzi che presenta. Dark Steering si distingue per meraviglia e potenza, con i beat che vanno storti rispetto alla versione in studio. E questa esaltazione della distopia viene ulteriormente amplificata dall'ultimo pezzo, basso a tracolla ed eccessi digitali, che spezzano le gambe alle/ai ballerine/i, invero non moltissimi, a fronte di migliaia di persone in e-statico ascolto. E poi un'ora è troppo poco, per il nostro!
Chiude il set all'aperto un timidissimo James Blake, che rifiuta le luci e sprofondato nella penombra e oscurità ci dona un dj-set cupissimo, del dubstep più profondo e insondabile. Neanche qui riusciamo a vederlo in faccia, costante dalla copertina del suo disco. Il pubblico non sembra gradire questa atmosfera, ma a noi non dispiace affatto; soprattutto ci intriga la sua proverbiale distanza da qualsiasi concessione.
È mezzanotte e siamo di passaggio dai tre Frank Sent Us nel Foyer Sinopoli: una babele di suoni, consolle da Playstation, colonne sonore tarantininane distorte. E infatti ci tocca Atlas Sound in una Sala Sinopoli non così piena. Qui rimaniamo profondamente delusi, o forse non riusciamo ad entrare nel mood, ma ci accorgiamo che molti nostri “colleghi” sono stravaccati in poltrona a riprendersi dalle danze con una “penneca” che in contesti rave diviene chimica e precaria. E allora riscendiamo a seguire Mouse On Mars e il loro guazzabuglio di funk, elettronica e disco-punk. Si balla e qui le casse sono perfette. Come lo sono per quell'autoironico genio di Sebastien Tellier, che scende le scale della sua entrata sul palco della Sala Sinopoli da novello Gesù Cristo illuminato di azzurro: capello lungo, barba e occhiale da sole, con completo di raso bianco, attillato quanto basta per mostrare un discreto ventre. È un istrione, malinconico e sinfonico, molto poetico. Non come una parte del pubblico che, lo sappiamo, siamo a un festival e non tutto piace a tutti, lo apostrofa chiedendo indietro “aridatece Sandy Marton”. Non facciamo in tempo ad entrare nel mood, invero oltremodo barocco, che ci tocca il ritorno al Foyer, dove il saltellante Machinedrum spara ondate di decibel a un esaltato pubblico di perfetti ballerini. È una performance geniale, permanentemente sospesa su tappeti di forsennata batteria, con il nostro sorridente e scanzonato manipolatore di suoni, cantante, campionatore.
Sono le tre passate da un po' e ci tocca l'ennesima, ottima, bottiglietta Filette, sponsor acqueo della serata. Da qualche parte, a San Giovanni, sta iniziando l'afterparty con Baio di Vampire Weekend. Ci concediamo ancora l'ultima cassa, cristallina, di Theo Parrish nella bolgia affollata del Foyer Petrassi, perché vorremmo che MIT Festival non finisse mai.
Così già siamo in attesa del prossimo anno! E complimenti ancora alla posse irriducibile di Snob Production che sta dietro l'ottima resa di quest'anno, con la security molto meno invasiva del 2011 e una distribuzione migliore anche degli orari delle performance.
Articolo del
25/06/2012 -
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