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E’ successo più o meno a metà del concerto, quando mi ero spostato in una pregevole posizione laterale e stavo scattando foto a raffica, rigorosamente tutte con il flash. All’inizio non me ne sono neanche accorto, ho solo sentito un “don’t, don’t” e pensavo che facesse parte della canzone che Parks stava cantando, ma un certo punto ha quasi smesso di suonare e indicandomi al pubblico ludibrio mi ha intimato: “Don’t do that!” ovvero: smettila con quel cavolo di flash che mi deconcentra. Va be’, in fondo mi è capitato di peggio: in passato sono stato quasi picchiato da Hugh Cornwell (The Stranglers) dopo avergli fatto una domanda un po' provocatoria, ho avuto una discussione (fin troppo) animata con Tracey Thorn (Everything But The Girl) sui pregi e i difetti del monetarismo e... insomma, ne ho combinate tante. Ma essere platealmente “sgridato” da un colosso della musica d’antan non mi era ancora accaduto e mi ha un po’ riportato ai tempi della scuola, con Van Dyke Parks nel ruolo del severo - anche se alla fine bonario, tanto da scusarsi, successivamente, per il suo accesso d’ira - maestro. Che poi Van Dyke Parks un “maestro” lo è per davvero. E’ lui che in quel di Los Angeles, insieme al leggendario discografico della Warners Lenny Waronker, inventò il cosiddetto “Burbank Sound”, il sound colto e raffinato tuttora rinvenibile su tanti storici LP di Randy Newman, Ry Cooder, Gordon Lightfoot, Harry Nilsson ecc. ecc...; che in seguito fu il principale collaboratore di Brian Wilson (The Beach Boys) durante l’incisione del più importante album pop mai rimasto nel cassetto, il leggendario Smile; e che nel 1967 e poi nel 1972 pubblicò a suo nome due album eccentrici e complessi – un incrocio tra i Beach Boys e Frank Zappa (o, volendo, Debussy) non dimenticando il grande songbook americano degli anni ’30 e ’40 - ma in definitiva unici e irripetibili quali Song Cycle e Discover America.
“Quel” Van Dyke Parks lo abbiamo tutti nel cuore, almeno quelli di noi per cui brani come Surf’s Up (musica di Brian Wilson; liriche indecifrabili e perciò quanto mai azzeccate, di VDP), The Attic e The Four Mills Brothers hanno rappresentato qualcosa di importante, (forse) l’ultima frontiera del pop. “Quel” Van Dyke Parks, nella nostra memoria collettiva, è quello delle storiche foto delle sessions di Smile, è l’occhialuto nerd piccolo e magrolino che con Brian Wilson pare intento più a far baldoria (e in verità fecero anche quella) che a creare alcuni dei capolavori indiscussi dei tardi anni Sessanta. Quello di oggi, giunto a Roma come un’apparizione, è invece un signore prossimo alla settantina, più largo che alto, in fondo felice di poter portare la moglie a fare una vacanza tutta spesata nella Città Eterna, luogo che (incredibilmente) finora aveva visitato solo una volta, nel lontano 1957 (!)
Il motivo alla base di questo inatteso ritorno di VDP sulle scene è la ristampa su CD, da parte dell’inglese Bella Union, del suo basilare trittico di LP solisti: Song Cycle, Discover America (naturalmente) e poi anche il meno riuscito terzo episodio Clang Of The Yankee Reaper (1975). Di recente Parks ha inoltre pubblicato una serie di nuovi 45 giri in vinile in edizione limitata sulla sua etichetta Bananastan e questo tour è una buona occasione per poterli presentare (e venderli, direttamente al pubblico, alla fine del concerto). Peccato solo che, mentre per la data di Londra (al Barbican cinque giorni dopo) Parks sarà accompagnato dagli “special guest” Robin Pecknold (Fleet Foxes) e Daniel Rossen (Grizzly Bear) e dalla mini-orchestra Britten Sinfonia, qui a Roma approdi in formato ridotto: lui al piano a coda, Don Heffington alla batteria e percussioni e l’olandese Leland Sklar al basso. E peccato anche che ci siano alcune controindicazioni: sarà il caldo africano di questi giorni ma il pubblico è scarsino, e l’acustica della pur scenografica “sacra” location è lungi dall’eccellenza: sarebbe stato meglio, a mio avviso, uno dei tanti profanissimi locali e teatrini di cui la Capitale è ben dotata.
Anche l’essenzialità della line-up va un po’ a discapito dell’impatto dei brani: la musica di Van Dyke Parks, un po’ come quella di Frank Zappa, la si apprezza soprattutto per la complessità degli arrangiamenti che qui sono, per necessità, ridotti all’osso. Ma il talento pianistico di VDP non si discute, e la bellezza, spesso nascosta, delle sue canzoni, neanche. I punti fermi di Van Dyke Parks, lo si sa, sono il Mississippi (dov’è nato) e Los Angeles (dove vive e lavora ormai da oltre mezzo secolo), ed è alla loro magia e alla loro ineffabilità che è dedicata la maggior parte dei brani di stasera: perle come Orange Crate Art, in origine cantata da Brian Wilson nell’album a due mani del ’95 dallo stesso titolo, o Missin Miss’ppi, uno dei nuovi brani incisi a 45 giri (Van Dyke Parks da buon settantenne detesta la tecnologia digitale) dedicato alla recente tragedia che ha colpito la sua terra natìa con liriche quali "first Camille and then Katrina / took the dream and then the dreamer" e con un motivo blues tratto dal Primo Movimento del Piano Concerto per la mano sinistra in Re maggiore di Maurice Ravel: a confermare l’erudizione musicale dell’imbiancato signore seduto di fronte a noi al pianoforte. E così Van Dyke Parks continua a celebrare i bei vecchi tempi andati, quelli di quasi un secolo fa: di quando Hollywood era appena diventata la Mecca del cinema, come nel concept di Song Cycle; del protagonista di Cowboy (tratta dall’LP dell’89 Tokyo Rose) costretto a lasciare i campi di canna da zucchero della sua America per andare a combattere contro i giapponesi; del narratore di The All Golden (in origine anch’essa su Song Cycle ma ora riproposta in uno dei nuovi 45 giri), un immigrato dall’Alabama alla California che decide di tornare nella sua terra d’origine per scoprire che la situazione economica è anche peggiore di quando è partito; e ancora, dell’antico brano datato 1835, The Parting Hand, recentemente rielaborato da VDP: un inno religioso, in origine, e pertanto più che mai adatto all’ambientazione della Chiesa di San Paolo entro le Mura. E comunque alla fine del viaggio – nel tempo e nello spazio – VDP torna alla “sua” Los Angeles, amata e odiata allo stesso tempo. Da cui vorrebbe fuggire come nel quasi-gospel Sail Away (forse l’episodio migliore di Orange Crate Art) e che tuttavia resta il luogo / non-luogo in cui conserva gli affetti più cari: Wilson stesso, Randy Newman, e Lowell George, il defunto leader dei Little Feat a cui VDP dedica uno dei brani del bis, la cover Sailin’ Shoes, prima di congedarsi tra gli applausi del pubblico romano.
C’è il tempo per un’ultima sorpresa: ritrovare Van Dyke Parks che a fine concerto si piazza a un tavolino all’uscita della chiesa per vendere i CD rimasterizzati e i 45 giri e, come di prammatica, firmare autografi e farsi immortalare dai fotografi (stavolta senza protestare). Alla stregua, in pratica, di una qualsiasi indie-band in cerca di emersione, lui che un tempo era una delle figure più importanti e più potenti della discografia losangelina, e che in definitiva ancor oggi è assai richiesto come produttore (vedi l’acclamato Ys di Joanna Newson) e non soffre certo la fame. Probabilmente però non è altro che uno sfizio, uno di quelli che alla sua veneranda età VDP si vuole e si può concedere, in una calda serata romana, finalmente a tu per tu con quanti, anni prima, avevano acquistato quegli LP con quelle bislacche canzoncine e le avevano dapprima trovate ostiche, ma poi man mano ne erano rimasti intrigati e infine avevano imparato ad amarle intensamente. Ecco, ora Van Dyke Parks è finalmente davanti a loro (a noi). Non è più il ragazzino dalla faccia da schiaffi che si affacciava da quelle copertine, ma un signore anziano con qualche traccia di timidezza e dallo spirito sempre arguto. E vale la pena, per una volta, acquistare direttamente dalle sue mani un CD (nel mio caso, Clang Of The Yankee Reaper, quello che mi mancava) solamente per dirgli Thank You, Mr. Parks. Grazie, “maestro”. <
Articolo del
26/06/2012 -
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