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Come diceva Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore, ci sono “frutti che maturano prima ed altri che necessitano di più tempo per raggiungere la piena maturazione”. Kurt Vile da Philadelphia PA appartiene di diritto alla seconda categoria: ha sbattuto per anni contro il muro dell’indifferenza, ed è dovuto passare per diverse situazioni (tra cui la band The War On Drugs messa in piedi con l’amico/sodale Adam Granduciel); e solo sulla soglia dei trent’anni, dopo essersi trasferito a Los Angeles e aver incassato un contratto con la indie-label Matador, ha dato vita ad una coppia di album che l’hanno imposto all’attenzione – come si dice in questi casi – di critica e pubblico. Se Childish Prodigy (2009) poteva essere un fuoco di paglia, Smoke Ring For My Halo (2011) ha dimostrato che - altrochè! - qui siamo di fronte a un nuovo grosso talento. Uno in grado di prendere in prestito i sound dei Byrds di Untitled e del Tom Petty di Damn The Torpedoes, di triturarli alla luce di trent’anni di college ed indie-rock e quindi di riproporli in una versione mutata, stravolta e, in definitiva, “migliorata”. Date le premesse – e considerando che Smoke Ring For My Halo è senza ombra di dubbio uno dei più bei dischi del 2012 – l’occasione di vedere e sentire Kurt Vile nella sua prima apparizione capitolina era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Tanto più che c’era un fatal dilemma a cui dare soluzione: il nome Kurt Vile è una boutade, un gioco di parole con il più noto (di brechtiana fama) Kurt Weill oppure no? “Macché”, ci ha detto lo stesso musicista intercettato poco prima del concerto, “I miei genitori quando sono nato non sapevano neppure chi fosse Kurt Weill. Ma è un nome che mi piace perché emana un certo non so che di “punk rock””. Insomma, svelato l’arcano: Vile è proprio Vile. Ed è anche (un nuovo?) Kurt. Perlomeno, all’anagrafe così risulta.
Prima di lui, nell’accogliente location del Super Santo’s a Piazzale del Verano, tocca agli inglesi emergenti Breton, molto pompati dalla stampa (specie da quella britannica, notoriamente però di parte) dopo la recente uscita dell’album d’esordio Other People’s Problems. La formula electro della band dei londinesi Roman Rappak e Adam Ainger ricorda quella dei concittadini Klaxons, che però possiedono maggior talento in fase compositiva. Così, fatta eccezione per l’invero ottimo singolo Edward The Confessor, il set dei Breton dopo una ventina di minuti già mostra la corda. Ad ogni modo scusabili perché il popolo di Kurt Vile con loro ci entra come i cavoli a merenda. Misteri delle programmazioni estive.
Vile e i suoi Violators (questo sì che è un chiaro gioco di parole...) salgono sul palco poco prima delle 11 e dopo una breve prova e accordatura strumenti attaccano con le note della narcolettica Jesus Fever e dell’altrettanto potente On Tour: due dei migliori episodi di Smoke Ring..., due esempi di come suonerebbe Tom Petty se si trovasse a far musica oggi, con trent’anni di meno sul groppone e un’adesione alla cultura slacker che, poi, è quella della generazione di Kurt Vile. Kurt che, a vederlo così a pochi metri di distanza, è davvero un bel personaggio: il prototipo dell’anti-star, con chioma folta e lunghissima, quasi la caricatura di un capellone, t-shirt d’ordinanza e pantaloni a cicca che più stretti non si può. E i Violators (perlomeno la versione della band che Kurt si è portato appresso per questo tour) non sono da meno, con il batterista e il secondo chitarrista lungocriniti a replicare alla perfezione il look del leader. Kurt Vile è un timido e tende a concedersi poco alla platea, ma il concerto è coinvolgente: anche al di sopra delle aspettative, pieno di pezzi potenti e distorti e dall’elevato coefficiente melodico. Spiccano, naturalmente, i capolavori contenuti su Smoke Ring... quali Puppet To The Man (scritta a quattro mani con l’amico Granduciel) e In My Time, ma il momento più alto dell’esibizione è raggiunto con la cover di Downbound Train di Bruce Springsteen contenuta nel recente EP So Outta Reach, per due motivi: un po’ perché è l’unico pezzo del repertorio che conoscono davvero tutti, anche quegli avventori “casuali” capitati a San Lorenzo per sfuggire alla canicola, ma anche perché la lancinante e intensa versione di Vile & Violators fa – come si dice in gergo – le “strisce in testa” all’originale springsteeniano. O, quantomeno, è più elegante. Dopodiché i Violators si fanno da parte e lasciano il proscenio al solo Kurt Vile che ci delizia con due brani acustici, Peeping Tomboy e Blackberry Song. Il finale (con band) è trionfale: la furibonda Freak Train, pezzo di punta del primo album per la Matador anche se, in definitiva, abbastanza anomalo nel contesto del repertorio di Kurt Vile. Purtroppo a questo punto si è fatto tardi: sono le 23.54 e tra sei minuti scatta il coprifuoco. Kurt Vile ha appena il tempo di suonare un ultimo brano, che naturalmente è lo stranoto Baby’s Arms, alla chitarra acustica accompagnato unicamente dalle maracas del batterista. Ne risulta però una versione troppo scarna, poco a che vedere con l’avvolgente e ipnotico originale presente sull’album e che abbiamo tanto amato: un po’ un anti-climax, insomma. Al termine del pezzo il pubblico chiede ancora un altro encore, ma Vile è costretto a negarsi: “Non posso, finirei in galera” (esagerato!), dice prima di sparire nel retropalco.
Non più di un’ora esatta, alla fine, ma ne è valsa la pena. Vile forse non diventerà mai un’icona globale come quell’”altro” Kurt, ma per il momento una stella lo è già, seppur solo nel firmamento dell’indie-rock. L’unica cosa certa è che Smoke Ring For My Halo è un disco che lascerà il segno, anzi, già lo ha lasciato: chiunque lo ascolti non può fare a meno di innamorarsi di queste canzoni impregnate nel contempo sia di rabbia che di indolenza, e di metterle in rotazione ripetuta sul proprio lettore CD o mp3. Riuscirà in futuro Kurt Vile a fare di meglio? Una risposta è attesa entro la fine dell’anno, periodo in cui è prevista l’uscita del nuovo album: e solo allora sapremo se il buffo e talentuoso capellone di Philadelphia sarà riuscito a sorprenderci, ancora una volta.
Articolo del
06/07/2012 -
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