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Se dici Joan Baez, al 99 per cento delle persone vengono in mente (nell’ordine) Bob Dylan e la guerra del Vietnam. E’ così. E’ scientifico, ma un po’ limitativo. Quando in verità ogni concerto di Joan Baez è un appuntamento con la Storia, ovvero, a scendere nello specifico, con anni fatidici (tra la fine degli anni 50 e la metà degli anni 60) al termine dei quali la musica pop uscì profondamente, irrimediabilmente trasformata. Nacque allora la figura del cantautore (e poi, con l’incontro tra Dylan e i Beatles, quella del gruppo autonomo e indipendente). Si diffusero canzoni – e non più “canzonette” – in cui le rime un tempo obbligate “cuore/amore” lasciarono il passo a una totale libertà di temi, inclusi quelli politico-sociali e la poesia simbolista. E il cantante-marionetta nelle mani dell’industria del disco fu - in parte - soppiantato dal cantante-artista, un essere creativo e pensante con una personale visione del mondo da comunicare al pubblico. Alle radici di questa che fu una vera rivoluzione - anche del costume - ci furono, qualche anno dopo il primo Big Bang di Elvis e dei primi rock and rollers, quattro ventenni che strimpellavano le chitarre alla maniera dei vecchi folksingers: Joan Baez, Bob Dylan, Mimi Baez Farina (sorella di Joan) e Richard Farina (marito di Mimi). La loro ascesa è brillantemente raccontata nel basilare saggio Positively Fourth Street di David Hadju, tradotto nel 2004 in italiano per Arcana, ed è ad esso che vi rimando, anche e soprattutto per motivi di spazio. Nelle sue 300 e passa pagine, Hadju si sofferma sulla complessa interazione, sia creativa che affettiva, tra Dylan e la Baez, e racconta con dovizia di particolari e interviste ai protagonisti come “quattro ragazzi hanno cambiato la musica”, per usare il sottotitolo del volume. Leggetelo, se ancora non l’avete fatto: è un must, per poter capire cosa davvero accadde in quegli anni cruciali. Oggi due protagonisti di quell’epopea non ci sono più: Richard Farina è morto nel 1966 per via di un banale incidente di moto e Mimi Baez si è arresa nel 2001 di fronte a un terribile tumore. Ma per fortuna sia Dylan e la Baez (il “re” e la “regina” del folk anni Sessanta) sono vivi e vegeti, seppur un po’ vecchierelli, e continuano a esibirsi e, di tanto in tanto, a far capolino dalle nostre parti: Bob sarà il 16 luglio a Barolo in provincia di Cuneo, mentre Joan ha in programma in Italia ben quattro date, di cui una nella Capitale da cui mancava da cinque anni.
Joanie si presenta alla Cavea, stasera, con una formazione ridotta all’osso: Dirk Powell che suona banjo, chitarra e tastiere e che di fatto è un multistrumentista con il ruolo di jolly, e Gabriel Harris alle percussioni: ovvero il figlio (unico) della Baez, nato 43 anni fa dal suo breve matrimonio con il giornalista/attivista Gabriel Harris. Lei, Joan, ovviamente non è più la “pasionaria” dei turbolenti anni Sessanta e Settanta e appare oggi come un’elegante anziana signora (71 anni compiuti a gennaio) dai capelli più sale che pepe (un taglio che si potrebbe definire “alla Paul Weller”) e i modi gentili, quasi regali: d’altronde non era lei un tempo la “regina del folk”? La platea – non un sold-out ma ugualmente un bel pienone – la ama, Joan lo sa e ricambia da par suo. Siccome la Baez ha un repertorio mostruoso (le prime incisioni risalgono al 1959!) ci si chiede da dove andrà ad attingere. Si comincia dal presente, o meglio dal 2008, l’anno in cui è uscito l’ultimo album della Baez Day After Tomorrow in cui è contenuta la ballata God Is God regalatale da Steve Earle, peraltro suo produttore. Ma il primo vero tuffo al cuore è la successiva Be Not Too Hard, misconosciuto splendido brano di Donovan che la Baez aveva inciso nel 1967 (sull’album Joan) e che sta riproponendo, dopo tanti anni, nel corso del tour attuale. Cercate l’originale, sempre che riusciate a trovarlo: è davvero un signor pezzo folk, e anche la versione originale di Donovan non è affatto male. Naturalmente ai concerti di Joan Baez c’è sempre un convitato di pietra che di nome fa Bob e di cognome Dylan. E’ a Dylan che la Baez deve gran parte delle proprie fortune anche se, come è evidenziato a iosa nel volume di Hadju, è vero anche il contrario: nei primissimi anni Sessanta la star era Joan, ed è grazie alla sua “sponsorizzazione” se Dylan ottenne l’iniziale visibilità da cui prese l’abbrivio per diventare il (cosiddetto) “portavoce di una generazione”. Dylan però, a differenza della Baez, era anche un compositore (dettaglio non da poco) e a Joan regalò alcune delle sue storiche canzoni. La prima che viene eseguita stasera è Farewell Angelina (1965) un classico del repertorio della Baez anche perché è sua quella che si può definire la “versione definitiva”. Segue il traditional Lily Of The West (da Joan Baez Vol. 2 del 1961) e la recente cover di Elvis Costello Scarlet Tide (da Day After Tomorrow). Poi ancora due brani di Dylan: With God On Our Side (da Joan Baez In Concert Part 2 del 1963) e – bellissima, cantata con una limpidezza di cui Dylan non è stato mai capace da giovane, e tantomeno adesso – It’s All Over Now, Baby Blue (da Farewell Angelina, album del 1965), acclamatissima dal pubblico: uno dei momenti più alti della serata. Sulla performance vocale c’è poco da dire: la Baez non sostiene più a lungo le note alte come in gioventù ma – sarà un’eresia ma chi se ne importa – francamente la preferiamo così, più fragile e “vissuta”. E poi, comunque, è sempre una voce “alla Joan Baez”. Si susseguono brani che ci si attendeva e altri che sono delle vere sorprese: tra i primi figurano il gospel Swing Low, Sweet Chariot, che Joan cantò a Woodstock nel ’69, Catch The Wind, la canzone che nel ’65 rivelò al mondo il talento di Donovan, il “Bob Dylan britannico”, l’antico folk ottocentesco Hard Times di Stephen Foster e Jerusalem, seconda cover di Steve Earle dai connotati biblici. Stupisce invece la proposizione di Un mondo d’amore di Gianni Morandi (cantata in un quasi perfetto italiano) che, ci rivela la Baez, le ha fatto conoscere il suo amico Furio Colombo, il giornalista italiano in perenne trasferta negli USA. E’ una novità (almeno per noi) anche la successiva The Ballad Of Mary Magdalen, brano composto da una delle “scoperte” della Baez degli anni 90, il cantautore Richard Shindell.
A questo punto la serata prende una piega ispanica, con l’arrivo sul palco dell’ospite d’onore Marianne Aya Omac, una giovane chitarrista francese di chiaro talento sia dal punto di vista dell’ugola che della disinvoltura con cui muove le dita sullo strumento. Mentre Gabriel Harris si scatena alle percussioni, Joan e Marianne duettano su tre pezzi tra i quali riconosciamo La Llorona e Cucurrucucú Paloma (sì, proprio quella di battiatana citazione...). Si potrebbe e si dovrebbe ballare, peccato però che siamo alla Cavea dell’Auditorium, location in cui notoriamente il pubblico ha la tendenza a restare appiccicato alle sedioline. Congedata Marianne la Baez ritorna in ambito più propriamente folk. E’ questa però la porzione meno soddisfacente del concerto, con una selezione di brani fin troppo noti, e una (non necessaria) deriva "nazionalpopolare": The House Of The Rising Sun (in verità incisa la prima volta dalla Baez nel 1960, ben prima quindi sia di Bob Dylan che degli Animals); The Boxer di Simon & Garfunkel, Suzanne di Leonard Cohen, e perfino Imagine di John Lennon (incisa nel ’72 sull’album Come From The Shadows, uno dei più “politici” della Baez) che però, come solitamente accade quando non è cantata dalla voce al vetriolo dell’ex-Beatle, evoca un poco piacevole effetto “piano bar”.
Il clou è lasciato per i bis: Marianne viene richiamata sul palco per la gioiosa Gracias a la vida della cilena Violeta Parra, title-track della raccolta in lingua spagnola del 1974. Quindi, a grande richiesta, una dopo l’altra, quelle canzoni che in un concerto di Joan Baez (perlomeno in Italia) non possono mancare: C’era un ragazzo che come amava i Beatles e i Rolling Stones ancora di Morandi (1967) con il pubblico ormai tutto in piedi a cantare il “rat-tat-tat-tat” del ritornello; Here’s To You (La Ballata di Sacco e Vanzetti) che la Baez cantò nel 1971 su musiche di Ennio Morricone per la colonna sonora del film di Giuliano Montaldo sui due anarchici giustiziati negli USA negli anni 20; e infine – impossibile non suonarla, troppe le richieste – il classico dei classici del folk anni Sessanta. Blowing In The Wind, basta la parola. Soddisfatti? Sì, ma manca ancora qualcosa. A grande acclamazione la Baez è costretta a tornare sul palco, stavolta in solitario, e inizia a suonare la canzone forse più bella, l’unica del repertorio odierno da lei composta, il suo capolavoro: Diamonds And Rust, title-track dell’album del 1975 dedicata a Bob Dylan, o meglio al difficile e cervellotico rapporto che i due hanno avuto nel corso degli anni: “Here comes your ghost again”, canta la Baez evocando per l’ennesima volta quell’uomo che tanta importanza ha avuto nella sua vita e, di riflesso, anche nella nostra di appassionati di musica. “Yes I loved you dearly”, confessa Joan, “And if you're offering me diamonds and rust / I've already paid...” Applausi, scroscianti, e anche qualche luccicone. Ma non è finita: c’è ancora un’ultima canzone, il traditional di origine yiddish Donna Donna, con cui fare un ulteriore viaggio nel tempo fino al 1960 e a quel fatidico album d’esordio per la Vanguard che rivelò, dapprima all’America e poi a tutto il mondo, Joan Baez e poi di seguito tutta quella nuova generazione di folksingers che di lì a poco avrebbero davvero – parole di David Hadju – “cambiato la musica”. E non solo.
Positively Joan. E arrivederci (in italiano) alla prossima volta.
Articolo del
09/07/2012 -
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