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E tre! Nel giro di appena tre giorni, dopo Morrissey il 7 e Robert Smith il 9 luglio, con Paul Weller la Capitale si è regalata un tris eccezionale, composto delle tre massime icone britanniche degli anni 80, un decennio talora deprecato (ma perché poi?? Avete in mente quanto poca musica decente sia stata prodotta nei 90? Per non parlare degli anni Zero...) ma che poi a conti fatti ha espresso una quantità industriale di canzoni che continuiamo ad ascoltare ai giorni nostri e che quando capita siamo tutti ben lieti di poter risentire dal vivo. Tanto più che i tre (Morrissey e Weller certamente, i Cure un po’ meno) non sono ancora dei cadaveri stracotti come spesso ne arrivano da queste parti, ma al contrario, dei cinquantenni vivi e vitali e con una carica da fare invidia a colleghi che hanno la metà dei loro anni. Morrissey è forse oggi al top, sia per delivery vocale che per vastità di repertorio; i Cure continuano a dare concerti da tre ore e passa; e Paul Weller è reduce da un triplete di album (22 Dreams, Wake Up The Nation e il fresco d’uscita Sonik Kicks) che l’hanno visto con una voglia di sperimentare con e attraverso i generi che non aveva dai tempi degli Style Council.
Erano diversi anni che non vedevo Weller dal vivo: l’ultima volta era stata a metà degli anni Novanta, era l’epoca di Wild Wood (1993) e della sua infatuazione con i primi Traffic e in tutta franchezza l’avevo trovato noioso. Non mi era piaciuta quella vena acustica sul bucolico andante, mi era mancata l’energia degli Shout To The Top degli Style Council e degli Eton Rifles dei Jam. Però poi Weller ha ritrovato la sua grinta. Dischi come Stanley Road (1995), Heavy Soul (1997) e Heliocentric (2000) sono molto ispirati, anche perché in questa fase Weller ha scovato una formula “Brit-soul” che è diventata un po’ la sua cifra personale. Ne è seguito un decennio di assestamento (e anche di evitabili ripetizioni benché l’album del 2005, As Is Now, fosse bello tosto), poi, come detto, l’improvviso desiderio di rimettersi in gioco e le inattese (tardive) dichiarazioni di amore per David Bowie e per le sue storiche reinvenzioni. Per gli amanti del gossip: all’ultimo dei 7 (!) figli di Weller è stato appioppato proprio il nome di battesimo Bowie (poverino).
A salutare il ritorno del cosiddetto Modfather nella Capitale dopo sei anni di assenza ci sono i Mods vecchi e nuovi, inglesi in gita e volti noti della “scena” romana: Platea folta ma non foltissima ed età media, facendo un calcolo a spanne, 35 anni. Il termometro segna 45 gradi all’ombra e l’acustica dell’Atlantico lascia a desiderare, ma quando Weller fa ingresso in scena l’entusiasmo è grande. Eppure non sarà il tipico concerto di “greatest hits” che i Padri Nobili del passato sono soliti concedere. Weller, che indossa una per lui anomala t-shirt aperta sul petto (tanto ormai, da conclamato style-setter, può vestire come gli pare), inizia con la fragorosa The Attic (da Sonik Kicks), prosegue con Wake Up The Nation e quindi, in rapida successione, 22 Dreams. Tutti pezzi recentissimi, e pertanto non ancora ben piantati nel nostro subconscio, ma ugualmente belli e robusti. Anche perché stasera Weller mostra di avere una verve da ragazzino. Le pennate sono quelle imperiose dell’epoca dei Jam, e la band – con nota di merito per il mai troppo elogiato chitarrista Steve Cradock in prestito dagli Ocean Colour Scene – è puntuale e precisa nell’assecondarlo. Si passa dal dub-reggae di Dragonfly (una delle perle del disco) a pezzi più tirati come That Dangerous Age (il singolo), Paperchase e Drifters. Weller parla poco e fuma molto. E dal passato tira fuori due-tre assaggi: Start dei Jam (1980) con “quel” giro di basso tanto banale quanto indimenticabile, il primo singolo da solista Into Tomorrow (1990) e, una volta sedutosi alle tastiere, You Do Something To Me (1995) una delle più dolci ballate mai composte dall’ex (?) Mod di Woking. Giusto per gradire. Ma oggi è soprattutto il presente (nel senso di: gli ultimi dieci anni) a dominare la setlist. Magari annoiano i Mods in platea, ma Moonshine (da Wake Up The Nation), Fast Car / Slow Traffic (da Sonik Kicks) e All I Wanna Do Is Be With You (da 22 Dreams) dal vivo scorrono copiose e abbondanti e la voce di Weller non è mai stata così duttile e allo stesso tempo così possente. Tra momenti prog, reggae e jazzati fa la sua apparizione la “vecchia” Broken Stones (1995) ma è – appunto - solo una gentile concessione perché poi la Paul Weller Band inizia subito a rimacinare i suoi imponderabili sonik kicks.
Si suda a dismisura. E si soffre, anche, tanto che in chiusura di set alcuni Mods gettano la spugna e si rifugiano nelle retrovie, ma fanno malissimo, perché Weller & Co. sparano in rapida successione due pezzi dei Jam datati 1977: prima Art School e poi – addirittura – una fantastica In The City, potente e vibrante come all’epoca del punk e del Mod revival. Finalmente le prime file possono scatenarsi in un pogo liberatorio, che si quieta solo di poco con il brano successivo e conclusivo, una panoramica The Changingman dalle strofe autobiografiche sull’uomo in perenne trasformazione - quale Weller è certamente oggi, ovvero molto più “changing” di quando scrisse questa canzone.
E’ il messaggio finale di Paul Weller, che stasera ha dato fondo a tutte le energie di cui disponeva, e che solo per questo meriterebbe la stima imperitura dei presenti. A voler cercare il pelo nell’uovo si poteva evitare qualche barocchismo e si poteva inserire qualche altro “classico moderno”. Ma va bene anche così: l’uomo – l’artista - è più che mai vitale ed è entusiasta di quello che fa. E’ una fase creativa importante, la sua, e andrebbe forse seguita con maggiore attenzione da parte di tutti - sì, anche da quei Mods che abbiamo visto talora mugugnare - perché forse / magari / chissà, il meglio per il Modfather potrebbe ancora arrivare.
Articolo del
13/07/2012 -
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